Piace molto cercare similitudini su scala grandiosa per non dire epica: Salò, caduta dell’impero Romano. Per via della lassezza dei costumi, per via di Romolo Augustolo detto il Piccolo, ma forse non per via della statura, perché la leggenda stende sui grandi declini il velo leggendario della perdizione dissipata e folle che si accompagna appunto alla “decadenza”, tra baccanti e etere, eunuchi e cantori, cortigiani lascivi e sgangherati pronti al tradimento e irriducibili amanti, dedite all’estrema prova d’amore
È che il Senato non aspetta l’arrivo dei barbari, quelli li abbiamo in casa da tempo, è che si sarà riscontrata una coazione a ripetere italiana concernente tiranni e despoti, ma stavolta pare che il nemico non fugga, anzi, che nessuno gli faccia ponti d’oro su cui passare, mentre la folla inferocita abbatte monumenti e fasci littori. Il sacrificio del dittatorello è davvero quello rituale, ma con i coltelli da teatro quelli con la lama retrattile, con il re che mostra il pollice verso, ma sa che i leoni sono di cartapesta, mentre il console e il suo governicchio sono chiusi dentro alla fortezza a sbrigare le loro faccende, indisturbati.
Non lo saranno per molto. La minaccia non arriva dagli ultras del condannato che innalzano altari in onore del martire, si produrrà tramite insolite alleanze tra lui e il capo dell’ondivaga opposizione: hanno terreni di scorreria e geografie della propaganda comuni, a tutti e due fa comodo la più suina delle leggi elettorali, il loro radicamento nell’elettorato si somiglia, occasionale, livoroso e personalistico. E ambedue invocano la piazza ma la temono, perché non ne sono immuni, perché la folla . lo sanno perfino loro – è più intrattabile e meno governabile degli spettatori, dei teleutenti, dei consumatori.
E di questi tempi le piazze mostrano un carattere preoccupante per chi pensa di difendersi stando in alto, stando lontano, stando separato. È fatta di tanti segmenti, di tanti fermenti ognuno dei quali è mosso da una rabbia differente, per la casa, contro il precariato, per il lavoro, contro le grandi opere, per i beni comuni, e tutti poi possono dare forma a un amalgama, a un’unica combinazione di dissenso, critica, rabbia, opposizione, a un unico urlo contro un unico nemico, cui prestano le loro facce grigie figure senza carisma, senza autorevolezza, senza coraggio, senza idee, non molto diversi dal tirannello per il quale hanno esplicitamente o nascostamente prestato servizio. Ma meno ricchi, meno fatali, meno potenti, meno furbi, meno liberi. Perché c’è il sospetto che la sua capacità e i suo strumenti di ricatto, la rete di alleanze opache che ha intessuto, le regalie dispensate con dovizia, la molteplicità di complicità facciano ancora tenere tra le sue dita molti fili che muovono gli eterni burattini.
Il sacrificio rituale del tiranno non fa fuori l’imprenditore sfacciato e disinvolto, l’imperatore delle televisioni che può pontificare a reti unificate e cui il sindaco della Capitale non nega il plateatico, l’origine del successo della satira che resterebbe orfana, l’oscuro cravattaro che minaccia implicitamente ex fedeli, diversamente fan, finti oppositori che oggi si accorgono che solo con un paletto nel cuore ci si libera di lui.
Perché come non mi stancherò di ripetere, è l’erede del declino della politica in favore del primato del leaderismi, è il volto prestato a un italiano medio, poco attento alla trasparenza e alle regole, incantato dalla furbizia, dall’affermazione sguaiata di sé e delle proprie ambizioni, è l’altoparlante e l’imbonitore di una ideologia del profitto che predica e razzola il disprezzo delle regole, l’egemonia dell’affiliazione, l’egoismo sopraffattore. Anche se se ne andasse, anche se il gran baule di Vuitton sulla Piazza Rossa altro non fosse che il suo bagaglio a mano di fuggiasco, resta il suo cerchio tragico e ridicolo a una tempo, le sue propaggini, le sue germinazioni, che si chiamino Renzi, che si chiamino Alfano. E d’altra parte mica pretenderete che gli italiani uccidano il Berlusconi che è in loro?
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