Hanno catarreristiche tecniche diverse da quelle del passato. Si sa da
subito chi vincerà. Sono veloci nella fase militare ed eterne nella
ricostruzione della pace.La guerra umanitaria che ha il brevetto sul nome è quella dei
bombardamenti Nato sulla Jugoslavia di Milosevic. È il 1999 e da
Washington e Bruxelles ci dicono che è per difendere la minoranza
albanese della provincia serba del Kosovo. Roma zelante ripete la
lezione. Balla sovranazionale, con la Serbia che alla fine perde un
pezzo del proprio territorio e l’Europa che ci guadagna solo un nuovo
staterello attaccabrighe, nuova isola della Tortuga. Dopo l’avventura
che il mondo continua a pagare cash con elefantiache e sterili missioni
internazionali, quella motivazione alla guerra perde fascino e
credibilità. Da allora si tenta di legittimare altre azioni militari
internazionali come “ingerenza umanitaria”, ma lo slogan è bocciato sul
nascere dagli addetti al marketing dell’idealpolitik. Troppo evidente
pubblicità ingannevole.
Le guerre umanitarie, hanno caratteristiche tecniche che le
distinguono da tutte quelle del passato. Si sa da subito chi vincerà.
Squilibrio di forze poderoso, altrimenti neppure ci si proverebbe. Sono
veloci nella fase militare e sono eterne nella ricostruzione della pace
del cessate il fuoco che viene gabellato come pace. Quelle guerre
impongono l’uso di ordigni sempre intelligenti, che ammazzano i civili
nel tentativo di risparmiare i soldati. “Opzione zero” viene chiamata.
Tradotto: zero morti per chi decide il conflitto e zero umanità nei
confronti di chi lo subisce. Per perfezionare il meccanismo delle guerre
umanitarie resta un problema da risolvere: individuare e catalogare i
pochi buoni da soccorrere e i molti cattivi da punire. Prima o poi
scoppierà una guerra anche per questo. Cruise e Tomahawk non sanno
distinguere.
Anche a raccontarle, quelle umanitarie sono guerre difficili. Guerre
da vendere, da mettere sotto i riflettori a tutti i costi ma senza
mostrare nulla. L’ultimo Iraq ne è l’emblema. Guerra da offrire in pasto
all’opinione pubblica attraverso insistita e acconcia esposizione
dell’attacco meritorio. Il conflitto armato, se abbastanza televisivo,
fa ascolto, e il macello si trasforma in ore di televisione a basso
costo, da spalmare su tutto il palinsesto. In un pindarico
contraddittorio che insegue le emozioni e perde per strada la notizia, o
almeno l’obbligo di verificarla. È la guerra dei forse, dei sembra, dei
si dice. La guerra è materia giornalistica da maneggiare con prudenza,
sempre. E quella umanitaria, che millanta di ammazzare soltanto un po’ e
quasi chiede scusa, pretenderebbe una cronaca in toni composti. Da
funerale di stato.
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