martedì 13 dicembre 2016

Monte dei Paschi e le altre

È assai probabile che si arrivi a un provvedimento di intervento pubblico nel capitale non solo nel Monte dei Paschi, ma anche delle altre banche in difficoltà. Si ipotizza così uno stanziamento di 15 miliardi di euro
E’ di ieri la notizia che le autorità di Francoforte hanno respinto la richiesta di una proroga nei tempi di scadenza, concordati per la fine di dicembre, per la messa in sicurezza del Monte dei Paschi di Siena, i cui ultimi dati economici e finanziari appaiono in questi mesi in rilevante peggioramento.
Il caso della banca toscana è per molti versi, dall’inizio alla fine, uno specchio fedele di alcuni dei mali del nostro paese.
Intanto nessuno aveva visto venire la crisi della banca, né il consiglio di amministrazione, né il collegio sindacale, né il management, né la stampa, né la Fondazione che controllava l’istituto, né i partiti che facevano contorno, né la Regione, né il Parlamento, né gli organi di controllo, dalla Banca d’Italia alla Consob. Anzi un dirigente che aveva retto le sorti dell’istituto per qualche tempo era stato poi premiato con la nomina a presidente dell’Abi, dove anche ovviamente nessuno si era accorto di nulla. Sembra proprio che nel nostro paese i controlli non esistano, a nessun livello.
E così la banca, ad un certo punto, si è ritrovata ad essere inserita nell’elenco, che speriamo non si allunghi ancora troppo nei prossimi mesi, dei nostri istituti in difficoltà, il cui andamento allarma da tempo la stampa internazionale e alimenta cattivi presagi sul nostro paese.
Si tratta, tra l’altro, dell’Unicredit, l’unica banca sistemica nazionale, che dovrebbe essere ricapitalizzata per 13 miliardi di euro mentre sta vendendo alcuni dei gioielli della corona, dopo che il suo management per anni aveva negato la necessità di intervenire, poi delle due banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) e dei “fantastici quattro” istituti (Etrutria, Banca delle Marche, Cariferrara, Carichieti) da tempo sotto i riflettori, oltre ad alcuni casi minori. Il tutto condito dalla presenza di 200 miliardi di crediti in sofferenza e di 160 miliardi di crediti incagliati.
Ricordiamo che, mentre si tende a attribuire le cause delle difficoltà dei nostri istituti esclusivamente alla crisi economica, in realtà esse sono da attribuire, almeno per una larga parte, anche ad alcune altre non brillanti caratteristiche del nostro sistema economico e politico, la corruzione diffusa, la cattiva gestione (le due cose spesso si uniscono), i rapporti incestuosi con il potere politico, la scarsa vigilanza.
Su tutto questo calderone il governo Renzi si è mosso sin dall’inizio con delle decisioni quasi sempre maldestre, come del resto da tempo accade da noi. Ricordiamo, tra tutte, il tentativo di scaricare gli obbligazionisti subordinati delle quattro banche sopra citate, tentativo finito poi nel caos, sino al pasticcio architettato nei giorni scorsi con l’MPS sempre sugli obbligazionisti subordinati, che a suo tempo avevano acquistato dei titoli con un livello moderato di rischio e si sono ritrovati, pena la perdita di tutto, a doverli sostituire con degli altri titoli molto più rischiosi. Sottolineiamo infine la bocciatura recente, da parte della Corte Costituzionale, del progetto governativo di riforma delle banche popolari, studiato come al solito con molta fretta ed improvvisazione.
Soprattutto, comunque, il governo Renzi non voleva sentir parlare di nazionalizzazione della banca senese, avendo, tra l’altro, una visione fanaticamente liberista dell’economia. E così le aveva provate tutte. In particolare, si era rivolto agli amici americani, nella persona in particolare di Jamie Dimon, della JPMorgan, a suo tempo fanatico oppositore negli Stati Uniti di ogni intervento pubblico di regolazione del sistema finanziario.
Si era così messa in piedi una cordata di banche internazionali che promettevano di trovare la via per aumentare il capitale della banca dei cinque miliardi necessari, mentre il fondo Atlante avrebbe pensato a coprire la partita dei crediti in sofferenza.
Ma si è visto poi che, nella sostanza, si trattava di propaganda pre-referendum e il cinque di dicembre il tavolo è saltato.
Noi non sappiamo cosa succederà ora veramente, le cose non sono ancora del tutto chiare, ma appare del tutto evidente che bisognerà arrivare nei prossimi giorni all’annuncio di un provvedimento di intervento pubblico nel capitale, sotto qualche forma, non solo nel Monte dei Paschi, ma probabilmente anche in quello delle altre banche in difficoltà. Si ipotizza così uno stanziamento di 15 miliardi di euro. Non sappiamo poi quali saranno le contropartite che ci chiederà la Bce, né quale sarà la sorte dei creditori dell’istituto. Ignoriamo anche cosà succederà alle altre banche e a tutti gli attori che si sono mossi intorno al loro salvataggio.
Noi siamo da tempo sostenitori di un intervento pubblico nel settore bancario, ma lo vedevamo nell’ambito di un disegno strategico che puntasse a fare delle banche nazionalizzate il perno di una nuova politica del credito, concentrata sul sostegno alle piccole e medie imprese, sull’incremento dell’occupazione, sulla crescita degli investimenti pubblici e dell’innovazione tecnologica, su una forte spinta, infine, al settore dell’economia verde.
Purtroppo, per come si presenta ora la cosa, come una via obbligata che non si aveva nessuna intenzione di percorrere, per di più con un governo in crisi e con la politica che pensa a tutt’altro, l’intervento potrebbe facilmente rivelarsi come il solito pasticcio, cui bisognerà poi porre in qualche modo rimedio.

lunedì 12 dicembre 2016

Il Renzi-bis si chiama Gentiloni

Se ne parlava da giorni e il nome era già stato anticipato da tutte le fonti di stampa possibili, che avevano potuto assistere alle "consultazioni parallele" che avvenivano a Palazzo Chigi mentre il Presidente della Repubblica conduceva quelle "istituzionali". In pratica, Renzi ha voluto far sapere a tutti che anche il nuovo governo è il "suo", e che dunque non molla affatto le mani sul potere. Messaggio per addetti ai lavori, mentre – sempre dagli stessi giornali di regime – si fa fotografare in quel di Pontassieve (residenza privata) con tanto di tiyoli "torno a casa davvero".
Sciocchezze e "scortesie" istituzionali che poco cambiano nel quadro generale. Paolo Gentiloni, ex rutelliano, ex Margherita, ministro degli esteri solo dopo che Federica Mogherini era stata lanciata sulla poltrona di "Lady Pesc" (ministro degli esteri dell'Unione Europea), è forse il più incolore tra i molti papabili dell'entourage stretto di Matteo Renzi.
Nella sua lunga carriera può vantare una clamorosa sconfitta alle primarie Pd per la candidatura a sindaco di Roma, superato superato facilmente nientepopodimeno che da Ignazio Marino.
Gentiloni insomma è l'uomo giusto per tenere canda la poltrona, senza troppe pretese di protagonismo, in attesa che "il caro leader" ricostruisca una narrazione credibile per potersi presentare "rinnovato" alle prossime elezioni politiche. L'enfasi sull'"io torno a casa davvero" è un pezzo dello storytelling in fase di costruzione per ricostruirsi e ricostruirgli l'immagne devastata dal risultato del referendum.
Dal punto di vista istituzionale, detto freddamente, non c'erano probabilmente molte altre soluzioni (nome del presidente del consiglio a parte), visto che il Pd controlla la maggioranza assoluta dei deputati alla Camera e un terzo ei senatori. Quind qualsiasi governo senza il Pd era semplicemente impossibile, a meno di una clamorosa spaccatura in quel partito. Che è, sì, dilaniato dalle ambizioni personali e/o di corrente dopo il disastro nel referendum, ma pur sempre popolato da vecchi o nuovi marpioni del potere che non hanno alcuna intenzione di suicidarsi separandosi in questo momento.
Bisogna infatti ricordare che in questo momento non c'è una legge elettorale utilizzabile per rinnovare il Parlamento. E' uno dei risultati del "genio" di Rignano sull'Arno, che ha imposto l'Italicum per la sola Camera a colpi di maggioranza, senza metter mano a una legge "omogenea" per il Senato, nella convinzione ottusa che al referendum avrebbe vinto e che, quindi, non sarebbe servita.
Di fatto, l'Italia geneticamente modificata da Renzi e Napolitano è l'unico paese del mondo che non più più neanche andare a nuove elezioni. O, perlomeno, che possa andarci con la ragionevole speranza di eleggere comunque un governo (Camera e Senato avrebbe al momento certamente delle maggioranze differenti, impedendo di fatto qualsiasi esecutivo durevole).
Di questo disastro, ovviamente, ben pochi osservatori fanno cenno; o lo addebitano chiaramente al "duo malefico" che negli ultimi tre anni ha spinto questo paese sulla via disegnata dalla Troika, mentre la fanfara della "narrazione" creava fondali di cartone con su scritto "crescita", "occupazione", "semplificazione", "efficienza", "merito", ecc.
Renzi dunque resta una carta da giocare nel breve termine per continuare questo gioco. Ma il risultato del referendum la rende assai meno efficace di prima; la straordinaria maggioranza della popolazione (non solo periferie, giovani, precari, mezzogiorno, ma anche laureati, professionisti, partite Iva) ha infatti bocciato clamorosamente l'intera politica del governo appena dimesso.
Vedremo dalla lista dei ministri quanto il Renzi-bis chiamato Gentiloni sarà una fotocopia dell'originale o una "discontinuità" anche solo minima.
Di certo, le scadenze internazionali che attendono il nuovo "esecutivo del sì" (sarà sostenuto apetamente solo dai gruppi parlamentari che hanno perso la scomessa referendaria) non saranno agevoli. O perlomeno non permetteranno di continuare a raccontare la favoletta delle "politiche espansive, per la crescita e l'occupazione".
Come ricordava ieri Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera
La legge di Bilancio, che contiene finalmente misure importanti di stimolo agli investimenti oltre ai provvedimenti per la ricostruzione e l’emergenza immigrati, non è priva di spese dirette a conquistare (con scarsa fortuna) il consenso. Il prossimo governo dovrà trattare con Bruxelles modifiche non banali.
A marzo, insomma, bisognerà mettere in cantiere una "manovra correttiva" che cancellerà tutte le promesse infilate nella legge di stabilità appena approvata, e che dovevano servire a comprare consenso referendario.
Anche Renzi, e soprattutto Pier Carlo Padoan, lo sapevano benissimo, perché Bruxelles non aveva affatto nascosto le sue – diciamo così – "perplessità davanti a spese una tantum per pensioni minime, bonus vari, "80 euro" buttai qui e là, ecc. Ma pensavano o speravano di poter affrontare la correzione da una posizione di forza ormai acquisita. La vittoria del "sì" avrebbe infatti fossilizzato un assetto costituzionale tutto sbilanciato a favore dell'esecutivo. Anche protestare, insomma, sarebbe diventato più difficile, tendenzialmente "illegale". Come avevano provato a spiegare, le "zone rosse" dichiarate dal governo sarebbero state allargate fino alla porta della vostra (e nostra) casa.
Ma con questa crisi e il cambio di premier, comunque, si rompe pesantemente anche la "narrazione" che aveva precariamente gestito il rapporto tra establishment e popolazione negli ultimi tre anni. Quel pasticcio molto berlusconiano tra tagli alla spesa e "riforme" contro il lavoro (Jobs act, "buona scuola", pubblica amministrazione, ecc), tra sottrazione di diritti esigibili e piccole regalie temporanee, non può più andare avanti. E non solo perché – per tutto il tempo che ci separa dalle prossime elezioni – mancherà l'apporto del "grande attore" che ha dominato gli schermi televisivi negli ultimi tre anni.
Non c'è però una "narrazione di riserva". E dovranno rispolverare il lettian-montiano "lo vuole l'Europa". Che da parte sua farà sentire nuovamente la mano dura, anziché quella temporaneamente tollerante.
Un'opposizione sociale e politica seria, antagonista e di sinistra effettiva, come quella messasi in moto per il NO al refrendum, ha largo spazio per attivare il "blocco sociale". Che ha già fatto il suo votando per impedire la controriforma reazionaria e golpista, ma che chiaramente ha bisogno di molto di più.

mercoledì 7 dicembre 2016

Ceto medio italiano nel mirino delle potentissime lobby finanziarie

I dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico indicano che i cittadini italiani sono in assoluto tra i meno indebitati del mondo, meno degli Americani, meno dei Francesi e meno dei Britannici.
Il Regno Unito presenta addirittura il record di indebitamento delle famiglie. Contrariamente a ciò che ci si potrebbe aspettare, la disoccupazione e la precarietà costituiscono un incentivo all’indebitamento. E dove ci sono più disoccupati, cioè tra i giovani, vi è anche meno percezione dei rischi connessi all’uso della carta di credito. Il quotidiano “Il Sole-24 ore” comunica a riguardo un dato sconcertante, secondo il quale almeno il 5% dei giovani utenti inglesi di carte di credito non ha neppure la consapevolezza che il denaro speso vada restituito.
Se i dati OCSE confermano invece l’attitudine prudente e risparmiatrice degli Italiani, l’informazione ufficiale non perde comunque l’occasione per ricordare che il debito pubblico italiano appare ancora fuori controllo. I due dati però non sono affatto in contraddizione come ci si vorrebbe far credere. Se gli Italiani sono poco indebitati è perché sono in gran parte creditori dello Stato, cioè tendono a risparmiare in titoli pubblici nonostante i consigli in senso contrario delle banche, le quali vorrebbero riservare per loro stesse quel tipo di investimento così scevro da rischi.
Attualmente il debito pubblico italiano è di nuovo quasi tutto interno ed un governo meno prono alle lobby finanziarie potrebbe facilmente renderlo tutto interno, perché c’è un ceto medio ancora capace di comprarlo, quindi oggi l’emergenza-spread appare più fittizia che mai. Ciò dovrebbe sfatare molto del terrorismo che ancora si diffonde circa i disastri di un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro. Evocare continuamente l’esempio della Grecia per avallare questi terrori non tiene conto del fatto che il debito pubblico greco è nella gran parte nei confronti di creditori esteri.
Probabilmente gli “euristi” fanno tanto terrorismo poiché sono a loro volta terrorizzati; infatti non ci viene spiegato come mai, in quattordici anni di storia, l’euro non sia mai diventato una valuta di riserva, cioè una moneta di pagamento per gli scambi internazionali che fosse alternativa, o almeno complementare, al dollaro. Il punto è che l’euro va bene per tenere compatto il gregge europeo sotto lo stemma NATO, ma non certo per dar fastidio agli Stati Uniti, ovviamente se si vuole rimanere vivi ed in salute (e ciò spiega la persistente pavidità anche di quegli esponenti della “sinistra” e di quei dirigenti sindacali che, a differenza di Renzi, non possono affidare la propria salvezza personale alla prospettiva di farsi cooptare in qualche lobby multinazionale).
Il motivo per cui in Italia c’è meno indebitamento delle famiglie non è genericamente culturale, ma è dovuto appunto alla presenza di un ceto medio vasto e consistente; un ceto medio che costituisce un notevole datore di lavoro attraverso il fenomeno dei badanti e che svolge anche la funzione di ammortizzatore sociale per i giovani lavoratori precari e privi di garanzie che trovano nella famiglia il proprio punto d’appoggio. Ci sarebbe comunque da dubitare circa il carattere lusinghiero e confortante dei dati OCSE sullo scarso indebitamento delle famiglie italiane. Quei dati indicano infatti che gli Italiani rappresentano un target dei “servizi finanziari” ancora tutto da colonizzare.
Nel settembre scorso la Banca Centrale Europea ha rilasciato dichiarazioni di apprezzamento sui risultati del renziano “Jobs Act”, il quale avrebbe impresso “dinamismo” all’occupazione. La stessa BCE si lamenta però del fatto che l’Italia ha contribuito scarsamente alla ripresa economica in Europa. Le dichiarazioni della BCE sono quindi contraddittorie o quantomeno equivoche. In realtà se ci fosse stato davvero un aumento dell’occupazione in Italia, questo si sarebbe riflesso anche in un aumento della produttività e del PIL, che invece non c’è stato. Non per niente la BCE, invece di parlare di aumento dell’occupazione, adopera un’espressione ambigua come “dinamismo”, che può voler dire tutto e niente.
Le mistificazioni spudorate del nostro compatriota Mario Draghi dimostrano chiaramente per quale lobby coloniale lavori, quella che vuole sostituire i redditi da lavoro con i prestiti, ciò che in termini tecnici si può definire come “finanziarizzazione dei rapporti sociali”. Il credito/debito diviene quindi la relazione sociale fondamentale, quella a cui tutte le altre sono subordinate. E questo è ancora niente, in quanto occorre considerare che il credito elargito in denaro elettronico/digitale è a rischio zero, poiché l’eventuale insolvenza del debitore non comporta per le banche nessuna perdita di liquidità. Il rischio è quindi interamente a carico del debitore. Non si era mai verificata nella Storia una relazione sociale così squilibrata. La finanziarizzazione dei rapporti sociali non rappresenta una “fase” del capitalismo, bensì costituisce l’esito scontato dell’assistenzialismo per ricchi ogni qual volta i rapporti di forza lo consentano, ovvero quando la disoccupazione sia ormai cronicizzata.
Gli obiettivi del “Jobs Act” si inquadrano perciò nel progetto recessivo dell’euro, cioè impoverire e precarizzare la popolazione lavoratrice e logorare il ceto medio per costringere tutti ad accedere maggiormente a “servizi finanziari”. Non a caso la stessa BCE, dopo gli apprezzamenti sul “Jobs Act”, non rinuncia alla solita ramanzina sul debito pubblico; proprio quel debito pubblico che costituisce tuttora il rifugio del risparmio delle famiglie e che fa da ombrello persino alle banche italiane.
Sino alla caduta del Muro di Berlino il ceto medio proprietario di immobili e titoli era stato uno dei capisaldi della reazione al comunismo, mentre oggi la lobby finanziaria globale sta facendo di tutto per spolparlo. Il ceto medio italiano è più nel mirino di altri perché dispone ancora di parecchio da saccheggiare. Questo ceto medio ha difficoltà a difendersi a causa della sua vulnerabilità ideologica nei confronti degli slogan del “rigore” e dell’ “abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi”; ciò in conseguenza di una tradizionale mentalità pauperistica e di un atteggiamento punitivo nei confronti del lavoro. Tale mentalità può spesso camuffarsi di slogan progressisti e di moralismo anti-consumistico, ma si smaschera per la sua tendenza a colpevolizzare le rivendicazioni salariali. Un’alleanza tra il ceto medio in via di “proletarizzazione” e la classe operaia rimane quindi problematica e forse impossibile.

martedì 6 dicembre 2016

Referendum, il Comitato per il No: "Renzi dica dove ha preso i soldi per la campagna"

La stampa ha iniziato a fare i conti in tasca al Sì: più o meno dieci milioni di euro spesi per la campagna referendaria. Non avevamo dubbi che si sarebbe trattato di una sfida impari. Non è esagerato richiamare la sfida di Davide, il Comitato per il NO, contro il Golia del il Sì, sostenuto governo, Pd e un ricco Comitato, che non dovrà rendere conto di chi ha sottoscritto e di come ha speso le risorse; malgrado questo riceverà mezzo milione di euro di soldi pubblici. «E' eticamente discutibile - dichiara Alfiero Grandi, vice presidente del Comitato per il No - che il Presidente del Consiglio giri un assegno di 500mila euro di rimborso elettorale al suo Comitato per il Sì, di cui per di più firma le lettere. Un Golia potente, che ha occupato senza scrupolo tutti gli spazi di informazione, televisivi e non, sovrapponendo ruoli istituzionali e di partito e che per di più spende e spande soldi dei quali non sapremo mai la provenienza perché non esiste obbligo di rendicontazione. Sfidiamo il Comitato del Sì - aggiunge Grandi - a fare come noi: renda pubblici i finanziamenti ricevuti e presenti un rendiconto di come sono stati impiegati i fondi».
Il Comitato per il No ha potuto fare una campagna elettorale, ancorché spartana, grazie alla generosa sottoscrizione popolare lanciata in rete attraverso la piattaforma change.org e grazie alle pagine internet e social. Antonello Falomi, tesoriere del Comitato, spiega che dal 14 luglio a oggi, 2 dicembre, sono stati raccolti - grazie al contributo di 3075 donatori - 301.746 euro, che sono stati spesi, tra l'altro, per spot e messaggi autogestiti tv e radio, per stampa, spedizione e affissione di 150.000 manifesti e un milione e mezzo di volantini, per la pubblicità nelle piccole stazioni ferroviarie, sulle riviste e online, per l'affitto di attrezzature e sedi, per contributi ad iniziative locali, per le copie anastatiche della Costituzione italiana spedite ai sottoscrittori.
Insomma, il Comitato per il No non ha avuto milioni a disposizione, ma ha potuto contare sull'impegno di tanti cittadini, grazie ad una campagna referendaria condotta per mesi in tutte le piazze italiane e alla presenza sul territorio di 710 comitati locali. «Dobbiamo ringraziare per l'impegno e la dedizione migliaia di elettrici ed elettori - continua Grandi - che in Italia e all'estero si sono impegnati con slancio per il No. Senza di loro questa campagna non sarebbe stata possibile. Il loro entusiasmo è il nostro entusiasmo. Grazie a tutti».
«Quando siamo partiti l'11 gennaio 2016 presentando pubblicamente il Comitato per il No, che Renzi ha avuto la bontà di definire dei gufi (per altro splendidi animali) e dei professoroni, la cui competenza tutti ci invidiano, l'esito del referendum sembrava una passeggiata, un plebiscito per Renzi. Invece oggi nessuno sa come finirà, come dimostra la preoccupazione evidente di Renzi di fallire l'obiettivo. Fino all'ultimo - conclude Grandi - tutto il nostro Comitato si impegnerà per far vincere il No, unica garanzia che anche l'Italicum verrà buttato nel cestino per poi andare ad approvare una nuova legge elettorale per la Camera e per il Senato, tale da permettere finalmente agli elettori di scegliere i loro rappresentanti in Parlamento»

lunedì 5 dicembre 2016

Post-neoliberismo e la politica della sovranità

La crisi della globalizzazione neoliberista che si sta manifestando a diverse latitudini, e che è stata dimostrata in maniera eclatante dalla vittoria della campagna per la Brexit nel Regno Unito e dal successo di Donald Trump nelle presidenziali americane, ha risuscitato una delle più antiche e polverose tra tutte le nozioni politiche: l'idea di sovranità.
Di solito intesa come l'autorità dello Stato di governare sul suo territorio, la sovranità è stata a lungo considerata un residuo del passato in un mondo sempre più globale e interconnesso. Ma oggi questo principio viene invocato in maniera quasi ossessiva dall'insieme di nuove formazioni populiste e dai nuovi leader che sono emersi a sinistra e a destra dell'orizzonte politico a seguito della crisi finanziaria del 2008.
La campagna per la Brexit in Gran Bretagna, con la sua richiesta di "riprendere il controllo", si è incentrata sulla riconquista della sovranità dall'Unione europea, accusata di privare il Regno Unito del controllo sui propri confini. Nella campagna presidenziale americana Donald Trump ha fatto della sovranità il suo leitmotiv. Ha sostenuto che il suo piano sull'immigrazione e la sua proposta di revisione degli accordi commerciali avrebbero garantito «prosperità, sicurezza e sovranità» al paese. In Francia, Marine Le Pen pronuncia la parola "sovranità" ad ogni buona occasione, nel contesto delle sue filippiche contro l'Unione europea, la migrazione e il terrorismo, e ha reso chiaro che questa idea sarà l'architrave della sua campagna per le prossime elezioni presidenziali francesi. In Italia il Movimento 5 Stelle ha spesso fatto appello al principio di sovranità. Uno dei suoi leader, Alessandro di Battista, ha recentemente dichiarato che «la sovranità appartiene al popolo» e che l'Italia dovrebbe abbandonare l'euro per riacquistare il controllo sulla propria economia.
La questione della sovranità non è stata solo appannaggio delle formazioni di destra e di centro. Richieste di recupero della sovranità sono venute anche da sinistra, un campo in cui questo principio è stato a lungo guardato con grande sospetto, a causa della sua associazione con il nazionalismo. In Spagna, Pablo Iglesias, il leader di Podemos, la nuova formazione populista di sinistra fondata ad inizio 2014, ha spesso descritto se stesso come un "soberanista" e ha adottato un discorso fortemente patriottico, facendo appello all'orgoglio e alla storia nazionali. Pur rifiutando la Brexit, Iglesias ha sostenuto che gli Stati nazionali devono recuperare la loro «capacità sovrana» all'interno della UE. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha criticato ferocemente la finanza globale e, in modo simile a Donald Trump, il commercio internazionale. In merito al Partenariato Trans-Pacifico (TPP), un trattato commerciale tra gli Stati Uniti e 11 paesi nell'area pacifica, Sanders ha sostenuto che avrebbe «minato la sovranità degli Stati Uniti».
La rivendicazione progressista dell'idea di sovranità può essere fatta risalire al cosiddetto "movimento delle piazze" del 2011, un'ondata di proteste che comprende la primavera araba, gli indignados spagnoli, gli aganaktismenoi greci e Occupy Wall Street. Nonostante questi movimenti siano stati spesso descritti come "neo-anarchici", in continuità con la lunga ondata di movimenti anti-autoritari, anarchici ed autonomi post-1968, una delle loro caratteristiche chiave è stata la domanda di carattere tipicamente populista, piuttosto che neo-anarchico, di recupero della sovranità e dell'autorità politica a livello locale e nazionale in opposizione alle élite finanziarie e politiche.
Le risoluzioni delle assemblee popolari di Occupy Wall Street hanno spesso invocato il preambolo «We the People» della Costituzione americana, e hanno chiesto un recupero delle istituzioni dello Stato da parte del popolo e una regolamentazione del sistema bancario per contrastare la speculazione finanziaria e immobiliare. Anche nelle acampadas spagnole e greche, la sovranità è emersa come una questione centrale nelle discussioni su come resistere al potere della finanza e della Banca centrale europea, accusate di frustrare la volontà del popolo.
Questa abbondanza di riferimenti alla sovranità sia alla destra che alla sinistra dello spettro politico suggeriscono come la sovranità sia diventata il significante chiave nel discorso politico contemporaneo: un termine che costituisce un campo di battaglia discorsivo e politico in cui si decideranno le sorti dell'egemonia politica nell'era post-neoliberista, e che determinerà se la biforcazione post-neoliberista prenderà una direzione progressiva o regressiva.
Questo nuovo orizzonte solleva questioni scottanti per la sinistra, che finora è stata tiepida nell'abbracciare la questione della sovranità. L'associazione della sovranità con lo Stato-nazione, con la sua lunga storia di conflitti internazionali e di controlli repressivi sui migranti, hanno portato molti a concludere che questo principio sia inconciliabile con una politica realmente progressista. Tuttavia bisogna notare che la sovranità - e in particolare la sovranità popolare - ha costituito un concetto fondamentale nello sviluppo della sinistra moderna, come si vede nel lavoro di Jean-Jacques Rousseau e nella sua influenza sui giacobini e sulla rivoluzione francese. Può la rivendicazione di sovranità vista nelle proteste del 2011, e nel discorso di Podemos e Bernie Sanders, preannunciare l'emergere di una nuova sinistra post-neoliberista che ritorna a vedere la questione della sovranità come un elemento chiave per costruire il potere popolare e combattere le disuguaglianze estreme e il deficit democratico che attanagliano le nostre società? Quali forme di sovranità possono essere realisticamente recuperate in un mondo interconnesso a livello globale? E fino a che punto è davvero possibile sviluppare in senso progressista l'idea di sovranità?
Riprendere il controllo in un mondo fuori controllo
Il ritorno della questione della sovranità negli dibattiti politici contemporanei rivela che ci troviamo di fronte ad una profonda crisi del neoliberismo, che sta dando nuova linfa alla domanda di controllo democratico sulla politica e sulla società, che erano considerate superate nell'era neoliberista.
La crisi finanziaria del 2008, con il disagio sociale che ha prodotto per milioni di persone, ha messo a nudo molte contraddizioni di fondo che erano visibili solo in parte negli anni '90 e primi anni 2000, quando il neoliberismo era trionfante. Le ansie che caratterizzano questa fase di transizione si concentrano particolarmente su una serie di flussi - commercio, finanza e persone - che costituiscono il sistema circolatorio dell'economia globale.
Se al culmine dell'era neoliberista, questi flussi - e prima di tutto i flussi finanziari e commerciali - venivano presentati dalla classe dirigente e percepiti dalla maggior parte della popolazione come fenomeni positivi e fonte di ricchezza, in un mondo caratterizzato dalla stagnazione economica, dall'insicurezza e dall'instabilità geopolitica, la globalizzazione e i suoi flussi appaiono a molti più come una fonte di rischio che di opportunità: forze che mettono in ridicolo ogni pretesa di controllo delle istituzioni politiche sul territorio che ricade nella loro giurisdizione.
È da questa percezione di assenza di controllo che scaturisce quel desiderio di "riprendere il controllo" che è la cifra del populismo contemporaneo, come abbiamo visto nello slogan più famoso della Brexit: riprendere il controllo come risposta ad un mondo che appare fuori controllo a causa dell'effetto destabilizzante dei flussi globali che sfuggono al controllo delle istituzioni democratiche.
La percezione di una perdita di controllo territoriale riflette il modo in cui la globalizzazione neoliberista ha scientificamente demolito le diverse forme di autorità e regolazione territoriale, nella speranza di trasformare il pianeta in un "spazio liscio", facilmente attraversato da flussi di capitali, merci e servizi. La sovranità è stata di fatto il nemico giurato del neoliberismo, come si vede nei frequenti attacchi lanciati contro questo principio nella teoria economica neoclassica e nella filosofia neoconservatrice che ha informato lo sviluppo del neoliberismo. Autori come Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Milton Friedman hanno considerato le istituzioni sovrane come ostacoli agli scambi economici e ai flussi finanziari; interferenze al primato del mercato e alla libertà economica di imprenditori e consumatori. Gli Stati-nazione avrebbero dovuto lasciare spazio ad un mercato globale, l'unico legittimo sovrano secondo la Weltanschauung neoliberista.
Questo progetto ha trovato la sua applicazione concreta nelle politiche neoliberiste di deregolamentazione economica e finanziaria che sono state sviluppate a partire dalla fine del regime di Bretton Woods e dalla crisi petrolifera del 1973, per poi esplodere negli anni '80 e '90. Le grandi imprese multinazionali che si sono sviluppate nel secondo dopoguerra hanno costituito presto una minaccia al potere territoriale degli Stati-nazione, che hanno spesso ricattato con la minaccia di trasferire altrove le proprie attività per ottenere normative fiscali e sul lavoro più favorevoli ai loro interessi. La creazione dei paradisi fiscali, che è andata di pari passo con lo sviluppo delle multinazionali, è servita come mezzo per vanificare il controllo sovrano sulla tassazione e sui flussi di capitale. Come descritto da Nicholas Shaxson in Le isole del tesoro, i paradisi fiscali hanno sovvertito il sistema di sovranità territoriale, rivolgendo questo principio contro se stesso e rivendicando sovranità per piccole isole e micro-Stati come il Lichtenstein o San Marino, usati come una sorta di covo dei pirati: territori extraterritoriali in cui nascondere proventi illeciti sottratti alle tesorerie nazionali. Gli espedienti utilizzati negli ultimi anni da aziende digitali come Google, Facebook e Amazon per evadere le tasse non sono che l'ultimo capitolo di questo attacco di lunga data alla sovranità fiscale.
Inoltre, la liberalizzazione commerciale, realizzata attraverso una serie di trattati commerciali globali e la formazione dell'Organizzazione mondiale del commercio, è stata anch'essa finalizzata a indebolire la sovranità degli Stati-nazione, privandoli di qualsiasi capacità di proteggere le loro industrie locali attraverso l'uso delle tariffe e altre barriere commerciali, ed esponendo così i lavoratori ad una corsa al ribasso globale sul salario e sulle condizioni di lavoro.
Dunque, nonostante il sospetto che alberga a sinistra rispetto all'idea di sovranità, è evidente che è stato esattamente il suo svuotamento il fattore che ha consentito gli effetti più nefasti del neoliberismo. È stata la demolizione delle giurisdizioni sovrane attraverso i paradisi fiscali e i trattati di libero commercio che ha favorito l'accumulazione di immense ricchezze da parte dei super-ricchi, a spese della gente comune, portando ad una situazione in cui, come documentato da un famoso rapporto della ONG britannica Oxfam pubblicato nel gennaio 2016, 62 persone controllano il 50% della ricchezza mondiale.
Alla luce di questi effetti nefasti della guerra del neoliberismo contro la sovranità, non dovrebbe sorprendere nessuno che di fronte alla crisi dell'ordine neoliberista, la sovranità venga vista nuovamente come un elemento necessario per costruire un ordine politico e sociale alternativo. Al centro di questa nuova politica della sovranità c'è la domanda di nuove forme di autorità territoriale per controllare i flussi globali: quei flussi che il neoliberismo ha visto come necessariamente virtuosi, e che molti oggi percepiscono più come una minaccia al loro benessere e alla loro sicurezza.
La domanda di sovranità è il punto nodale della politica post-neoliberista e il punto di sovrapposizione tra il populismo di destra e di sinistra, tra la politica di Trump e quella Sanders, tra la visione del Movimento 5 Stelle e quella di Podemos. Tuttavia i nuovi populisti di destra e di sinistra sono in profondo disaccordo rispetto a cosa si intenda esattamente per sovranità, quali siano i flussi globali che costituiscono effettivamente un rischio per la sicurezza e il benessere e che dovrebbero quindi essere controllati. Se l'idea di sovranità è al centro della disputa politica, la battaglia che si gioca intorno a questo concetto ha a che fare in buona parte con il significato che le viene assegnato, e il contenuto politico che ne consegue.
La sovranità popolare contro la sovranità nazionale
Ciò che il discorso della sovranità proposto da formazioni e candidati altrimenti agli antipodi come Trump e Sanders, Brexiters e Podemos hanno in comune è l'idea che per costruire un nuovo ordine sociale sulle macerie della globalizzazione neoliberista sia necessario rivendicare il diritto di comunità politiche definite su base territoriale (che si tratti di comuni, regioni, nazioni o continenti) di gestire la loro vita collettiva in modo relativamente autonomo dalle interferenze esterne; ovvero rivendicare alle comunità un certo grado di indipendenza rispetto alle forze e ai flussi globali che sembrano frustare qualsiasi tentativo di controllo reale da parte delle comunità sul proprio destino. Questa comunanza spiega come mai, nonostante le loro enormi differenze, ci siano dei punti di sovrapposizione tra populisti di destra e di sinistra. Ad esempio Trump e Sanders hanno entrambi proposto forme di protezionismo economico, e di intervento dello Stato nell'economia, attraverso uno stimolo alla costruzione di nuove infrastrutture.
Fatta eccezione per tali elementi di somiglianza, la sinistra e la destra populista sono in profondo disaccordo rispetto a ciò che significa realmente la sovranità, e che tipo di controllo territoriale debba essere ricostruito. Per i populisti xenofobi di destra, la sovranità è prima di tutto la sovranità nazionale, proiettata su un immaginario etnico Blut und Boden ('sangue e suolo'), spesso definito lungo linee etniche e isolazioniste e mobilitato contro coloro - stranieri e migranti - che sembrano mettere in dubbio l'omogeneità e la sicurezza del popolo. La visione di sovranità che si associa a questa logica politica riecheggia la filosofia politica di Thomas Hobbes, per cui la sovranità si reggeva sulla garanzia di sicurezza e protezione offerta dal sovrano ai suoi sudditi.
Il tipo di flusso globale che questa visione reazionaria della sovranità considera come la minaccia principale è evidentemente la migrazione. La sovranità in questa prospettiva significa innanzitutto la chiusura delle frontiere ai migranti, compresi i profughi in fuga dalla guerra, ma anche l'emarginazione delle minoranze interne indesiderate, e in particolare dei musulmani, sospettati di mettere in pericolo la sicurezza e la coesione sociale. Questa interpretazione xenofoba della sovranità era evidente nel dibattitto sulla Brexit, dove la campagna "Leave" ha vinto sfruttando la paura dei migranti, percepiti e additati come responsabili per il calo dei salari e il peggioramento dei servizi pubblici.
La visione progressiva della sovranità che è al centro della politica populista di sinistra, da Podemos a Bernie Sanders, ha un'accezione molto diversa. Essa rivendica la sovranità come sovranità popolare e non solo nazionale. Inoltre vede la sovranità come mezzo di inclusione - di reintegrazione nello Stato di una cittadinanza che da esso si sente alienata - piuttosto che di esclusione. Questa rinnovata domanda progressista di sovranità è memore degli albori della sinistra moderna, tra la fine del 18esimo secolo e l'inizio del 19esimo secolo. L'idea di sovranità popolare è stata invocata negli scritti di Jean-Jacques Rousseau, in cui era centrale l'idea che il potere doveva passare dalle mani del monarca a quelle del popolo, e ha profondamente influenzato i giacobini e la rivoluzione francese e le insurrezioni popolari del 19esimo secolo. Tuttavia l'idea di sovranità è caduta in discredito presso molti movimenti radicali durante l'era neoliberista. La sovranità è stata vista come un concetto autoritario, estraneo a una politica di emancipazione, come visto nella critica di questo concetto sviluppata da Michael Hardt e Antonio Negri in Impero. Tuttavia la nuova sinistra populista che è sorta dopo il crash finanziario del 2008 ha riscoperto la questione della sovranità, e si è convinta che una vera democrazie è impossibile senza il recupero di forme di autorità territoriale.
Il recupero progressista dell'idea di sovranità, come proposto da fenomeni come Sanders e Podemos, ha come principale nemico le banche, gli imprenditori senza scrupoli ed i politici corrotto al loro soldo, non gli stranieri, i rifugiati e le minoranze etniche. I flussi della finanza e del commercio, piuttosto che i flussi migratori, sono quelli che vengono visti come la principale minaccia al benessere e alla sicurezza delle comunità. In questo contesto la sovranità è concepita come un'arma che può essere usata dal Popolo contro l'Oligarchia, dai Molti contro i Pochi, dall'insieme della cittadinanza contro tutte quelle élite che prevaricano la volontà popolare: l'alta finanza che fa leva sulla mobilità dei capitali in un mondo senza frontiere per demolire ogni pretesa di controllo sull'economia, e i potentati internazionali, come la troika e il Fondo monetario internazionale, che vedono la democrazia come un pericolo per i mercati.
Se leader populisti progressisti come Iglesias e Sanders spesso hanno fatto uso di sentimenti patriottici e hanno visto lo Stato-nazione come lo spazio centrale di mobilitazione contro il sistema neoliberista, la loro visione di sovranità è certamente più multi-scala e inclusiva di quella del populismo di destra e comprende il livello locale, regionale, nazionale e continentale. La sovranità è stata infatti spesso invocata anche a livello locale dalle formazioni "municipaliste" che hanno conquistato i governi locali di Madrid e Barcellona. Le amministrazioni di Manuela Carmena e Ada Colau hanno usato il potere delle giurisdizione locali per sostenere l'economia locale, limitare i processi di gentrificazione e combattere la rapacità delle compagnie della cosiddetta "sharing economy", come Airbnb e Uber. Bernie Sanders si è invece appellato alla sovranità delle comunità dei nativi americani, in occasione delle proteste contro la costruzione dell'oleodotto Dakota Access Pipeline (DAPL).
È evidente che in un mondo globalizzato e interconnesso come quello in cui viviamo, una vera sovranità popolare, per essere efficace, deve essere esercitata anche a livello sovranazionale. Il caos provocato in Gran Bretagna dalla Brexit, e l'incertezza che ha generato sul futuro economico del paese, dimostrano che non è possibile nell'era contemporanea un semplice ritorno alla scala nazionale, o quantomeno quest'opzione non è possibile per gli Stati-nazione europei, che sono troppo piccoli per poter esercitare un reale controllo su processi economici di scala planetaria. Una politica progressista della sovranità deve trovare il necessario bilanciamento tra il livello nazionale e quello sovranazionale. Questo è il motivo per cui le richieste di democratizzare l'Europa come quelle avanzate dal movimento DIEM25 guidato dall'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis sono così importanti.
Confini porosi
Una visione progressiva della sovranità deve ammettere che lo Stato-nazione non è l'unico spazio di esercizio della sovranità, e che nel mondo contemporaneo la sovranità funziona a diverse scale, tutte con la loro legittimità, e tutte utilizzabili come un mezzo per perseguire un programma politico progressista. Viviamo del resto in un tempo in cui il luogo della sovranità è incerto e la definizione stessa di sovranità è oggetto di uno scontro simbolico. In questi tempi siamo chiamati a ripensare e reinventare la sovranità per adattarla ai contorni mutevoli di territori, diritti e istituzioni. Dobbiamo costruire nuove territorialità, concepite non come uno spazio a chiusura stagna, ma piuttosto come uno spazio delimitato da confini porosi, che possono essere aperti a migranti e rifugiati ed al contempo chiusi ai flussi di capitale speculativi e a forme dannose di commercio globale.
Il futuro ci dirà quale visione di sovranità sarà quella che prevarrà nel panorama post-neoliberista e se saranno i populisti di sinistra o di destra a vincere la battaglia per l'egemonia in questa nuova fase. Al momento è la destra populista ad apparire in chiaro vantaggio. Questo è dovuto da un lato al fatto che la maggioranza delle persone continua ad associare la politica della sovranità con lo Stato-nazione ed il nazionalismo, e in parte a causa delle esitazioni delle forze di sinistra e dei movimenti sociali nel rivendicare il principio di sovranità.
Ciò che è chiaro è che la sinistra non può permettersi il lusso di lasciare il discorso della sovranità alla destra. La domanda di recupero della sovranità scaturisce da un'esperienza reale di sofferenza e di umiliazione scatenata dalla demolizione neoliberista delle forme di protezione offerte un tempo dello Stato-nazione. Per rispondere alla rabbia e al disordine provocato dalla crisi economica, politica e morale del neoliberismo, la sinistra ha urgente bisogno di costruire una visione progressiva della sovranità nella quale il controllo del territorio non significhi l'esclusione degli stranieri e delle minoranze etniche e religiose, ma l'inclusione di diverse comunità a livello locale, nazionale e transnazionale nelle decisioni che le riguardano.

venerdì 2 dicembre 2016

I giovani lavorano meno, ma il governo dichiara il contrario

A tre giorni dal referendum arrivano pessime notizie, per il governo, dal fronte dell'occupazione. Naturalmente i media di regime provano a ribaltae la frittata, enfatizzando oltre misura il “calo della disoccupazione giovanile”. Vediamo perciò in dettagli la nota dell'Istat, per distinguere il grano (la verità) dal loglio (la propaganda filogovernativa).
Dice l'Istat: “Nel mese di ottobre la stima degli occupati cala lievemente rispetto a settembre (-,1%, pari a -30 mila unità). La flessione è attribuibile alle donne a fronte di una sostanziale stabilità per gli uomini e riguarda tutte le classi di età ad eccezione degli ultracinquantenni. Diminuiscono, in questo mese, i dipendenti a tempo indeterminato, mentre crescono quelli a termine e restano stabili gli indipendenti. Il tasso di occupazione è pari al 57,2%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali rispetto a settembre”.
Tradotto dallo statistichese stretto: ci sono 30.000 occupati in meno, in un solo mese, soprattutto donne e giovani. Gli unici a reggere sono gli ultracinquantenni, perché – come abbiamo spiegato spesso – l'esperienza nel mestiere è preferita dalle aziende in tutte quelle mansioni non brutalmente “di fatica muscolare”. Il saper fare, insomma, risulta comunque più “produttivo”, anche dal punto di vista imprenditoriale, anche se ovviamente costa un po' di più.
La stessa diminuzione degli occupati viene confermata dal dato trimestrale: “Nel complesso del periodo agosto-ottobre si registra un calo degli occupati rispetto al trimestre precedente (-0,2%, pari a -34 mila), che interessa gli uomini, le classi di età fino a 49 anni e i lavoratori indipendenti, mentre segnali di crescita si rilevano per donne, over 50 e lavoratori dipendenti”. Qui cambiano leggermente le percentuali per classi di età e genere, ma agosto è un mese “strano”, rispetto agli altri, perché si satura di lavori stagionali (che di preferenza riguardano giovani e donne; dalla ristorazione all'albergjiero, o comunque nel rampo turistico).
Non manca il solito dato apparentemente contradditorio: “La stima dei disoccupati a ottobre diminuisce (-1,2%, pari a -37 mila), dopo l'aumento del 2,2% registrato nel mese precedente. La diminuzione è attribuibile alle donne (mentre si registra una lieve crescita tra gli uomini) e si distribuisce tra le diverse classi di età ad eccezione degli ultracinquantenni. Il tasso di disoccupazione risulta pari all'11,6%, in calo di 0,1 punti percentuali su base mensile.”
Com'è possibile che calino contemporaneamente sia gli occupati che i disoccupati? Non c'è nulla di strano, se non i criteri statistici stabiliti da Eurostat (l'organismo comunitario del ramo), che fanno riferimento a due bacini diversi invece che – come sarebbe logico attendersi, trattandosi della stessa popolazione – a uno soltanto.
In pratica, gli occupati sono dati in cifra assoluta (22milioni e 750mila, all'incirca; tenendo comunque presente che per essere considerati tali basta aver lavorato anche una sola ora nella settimana della rilevazione); mentre il tasso di occupazione (57,2%) mette in relazione quella cifra assoluta con quella, altrettanto assoluta, della popolazione in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni, convenzionalmente). Se si fosse conseguenti, il tassodi disoccupazione sarebbe del 42,8%. Ma da questo bacino bisogna ovviamente escludere gli studenti della scuola dell'obbligo, i disabili, ecc. Quindi, per stabilire il tasso di disoccupazione uggiciale, si usa un altro criterio: si prende la cifra degli iscritti alle agenzie del lavoro, quindi persone ufficialmente alla ricerca di un lavoro, e si calcola la percentuale in relazione alla somma che viene fatta con gli occupati. Tutti gli altri cittadini, non occupati né iscritti alle agenzie del lavoro, vengono classificati e conteggiati come “inattivi”. Né-né…
Capito questo, ecco che diventa chiaro il mistero del calo contemporaneo di due insiemi che dovrebbero invece avere una dinamica opposta. “La minore partecipazione al mercato del lavoro a ottobre, in termini sia di occupati sia di persone in cerca di lavoro, si associa all'aumento della stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+0,6%, pari a +82 mila). Tale crescita compensa in parte il forte calo registrato a settembre (-0,8%).” E ancora “Il tasso di inattività sale al 35,1%, in aumento di 0,2 punti percentuali.” Cresce dunque, e di molto, l'esercito dei disoccupati reali che non vengono conteggati come tali. Uscendo dalle percentuali, stiamo parlando di oltre 10 milioni di persone che – per età e salute – potrebbero benissimo lavorare, ma hanno smesso persino di cercare un lavoro. Non proprio un dato di cui andare orgogliosi, ma che viene pudicamente occultato.
In ogni caso, e tenendo presenti i criteri statistici folli imposti anche all'Istat, il saldo annuale dà ancora un segno positivo per gli occupati (anche per una sola ora alla settimana!): “Su base annua si conferma la tendenza all'aumento del numero di occupati (+0,8% su ottobre 2015, pari a +174 mila). La crescita tendenziale è attribuibile ai lavoratori dipendenti (+194 mila, di cui +178 mila permanenti) e si manifesta sia per la componente maschile sia per quella femminile, concentrandosi principalmente tra gli over 50 (+376 mila). Nello stesso periodo calano gli inattivi (-2,2%, pari a -308 mila) e aumentano i disoccupati (+1,3%, pari a +38 mila).”
E i giovani? “A ottobre il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati), è pari al 36,4%, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al mese precedente. Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono per definizione esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perché impegnati negli studi.”
E dunque, “Il tasso di occupazione dei 15-24enni diminuisce di 0,1 punti percentuali, mentre quello di inattività aumenta di 0,4 punti.” Ormai si può capirlo facilmente. La disoccupazione giovanile è “scesa” non perché ci siano più giovani al lavoro, ma perché sono aumentati quelli che hammo smesso di cercarlo.
Vi sembra una buona notizia? A noi – e a quei giovani – non sembra proprio che o sia…

giovedì 1 dicembre 2016

Tutta colpa della Costituzione

In tanti hanno evidenziato, anche sulle colonne del nostro bel quotidiano, quanto i tratti del dibattito sviluppatosi attorno al referendum costituzionale stiano assumendo un carattere quantomeno grottesco. E il cattivo gusto, superato un certo limite che potremmo definire decenza, finisce col diventare da stucchevole a offensivo. Diciamoci le cose come stanno, senza le sciocche reticenze del politically correct.
È offensivo che il Governo, lo stesso Governo che con questo sistema bicamerale è riuscito a demolire la legislazione in tema di diritto del lavoro, ci venga a dire che la Costituzione sia un intralcio alle riforme necessarie al paese. È offensivo che il Governo ci venga a dire che quel testo al vaglio degli elettori serva a semplificare una realtà troppo complicata. È offensivo che il Governo ci venga a dire che questa riforma serva a contenere i costi della politica, dinanzi a un debito pubblico che supera il 130% del PIL. È offensivo che il Governo ci venga a dire che questa riforma serva a riconoscere un maggiore ruolo alla sovranità popolare, mentre dispone un innalzamento del numero di firme necessarie a mettere in moto gli istituti di democrazia diretta e preveda un Senato di non eletti. È offensivo che questo Governo ci venga a dire che il nuovo testo si fondi su equità e giustizia sociale, mentre la riforma è sostenuta da Confindustria e osteggiata dalla CGIL. È offensivo che il Governo ci venga a dire che la riforma sia nell’interesse del paese e del popolo, mentre sono le agenzie di rating e i grossi gruppi bancari ad averla voluta e a temere maggiormente un suo naufragare. È offensivo che il Governo ci venga a dire di essere forte della bontà dei contenuti della riforma, mentre per paura di fallire ha messo in campo tutti i poteri forti possibili e immaginabili: dall’ambasciata americana, a quel patetico Obama il cui lascito e stato giustamente preso a calci da Donald Trump, alle maggiori Istituzioni comunitarie, ai Capi di governo europei, a quasi tutti gli organi di stampa italiani e stranieri. È offensivo che il Governo fondi la sua campagna sul ricatto e sulla paura, facendo intendere che benefici come gli 80 euro o il futuro di banche sistemiche siano appesi al filo della vittoria del SI. È offensivo che il Governo ci venga a dire che la vittoria del NO comporterebbe un crollo ingestibile delle borse. È offensivo che il Governo ci venga a dire che il paese possa permettersi di rinunciare alla genitorialità costituzionale di Calamandrei, Togliatti, Iotti, Di Vittorio, Gronchi, Moro, Scalfaro, De Gasperi, Dossetti, Mortati, Croce, Einaudi, Nenni e Pertini (nomi presi a caso!) in favore di quella di Maria Elena Boschi. È offensivo che il Governo ci venga a dire che la riforma costituzionale serva a guarire i malati di cancro ed è imperdonabilmente criminale che alcuni sindaci italiani, indegnamente vestiti del tricolore, stiano girando il paese a raccontare che in caso di vittoria del SI i sistemi sanitari meridionali potranno essere paragonati a quello lombardo.
Dinanzi all’arroganza di chi pensa di poterti offendere, diventa difficile restare saldi e ancorarsi ostinatamente alle regole del gioco democratico. Bisogna che i governanti facciano attenzione. Il popolo è una bestia tendenzialmente pigra, che tende anche ad accontentarsi di poco pur di crogiolarsi nelle sue misere ma stabili certezze. Tuttavia, e in Italia sembra si tenda sempre più rapidamente in questa direzione, se la politica si rivela offensiva, disonesta e unicamente portatrice di interessi singolari, particolari e autoreferenziali, allora potrebbero cominciare i guai. E come biasimare coloro i quali decidano di mettere in campo opere di mutuo soccorso, non confidando più nei diritti sociali che lo Stato dovrebbe tutelare? E come biasimare coloro i quali decidano di fare esercizio di disobbedienza fiscale, non confidando più nei diritti politici che lo Stato dovrebbe tutelare? E come biasimare coloro i quali decidano di armarsi e di farsi giustizia da soli, non confidando più nei diritti civili che lo Stato dovrebbe tutelare?
È vero, viviamo nell’epoca della deresponsabilizzazione: sono in molti, volendosi sollevare a tutti i costi dai propri doveri, magari anche consapevoli dei propri sbagli tanto nella vita politica quando in quella privata, a non agire, nella sciocca e codarda speranza che a farlo siano sempre gli altri. Eppure, c’è sempre una sottile linea di demarcazione, un quasi invisibile limite che però una volta valicato segna il confine tra il vivere civile e la rivolta.
E quando l’esercizio della rivolta, che in quel momento viene vissuto come apocalittico, drammatico, dirompente, definitivo e drastico, si placa, allora viene ricordato quasi come doveroso, quasi come esso stesso fosse stato espressione paradossale di senso civico. E col depositarsi del tempo, col sedimentarsi degli anni, il ricordo diventa storia e rivive avvolto in un dolce senso di gloria. È questo che i Re devono ricordare, che le vicende si ripetono e che il popolo si rispetta perché espressioni violentemente rivoluzionarie sono cicliche nella storia e rappresentano la rabbia di quel mostro che, per quanto pigro e accomodante possa apparire, se destato finirà col pretendere un gravosissimo sacrificio