martedì 26 ottobre 2021

Tassare le multinazionali ma…

 L’Italia ha tassato alcuni servizi digitali erogati da imprese multinazionali di grandi dimensioni. Una “web tax” rivolta soprattutto ai giganti della rete come Google e Facebook.

Ma…

la tassazione prevedeva il 3% dei profitti su alcuni servizi digitali, e guarda caso, ha fruttato allo Stato una somma di “soli” 233 milioni di euro. Una somma “bassa” solo se rapportata ai profitti impressionanti delle multinazionali del web, ma utili a essere spesi per molti dei servizi pubblici che da tempo sono carenti.

Logica avrebbe voluto, che il governo intervenisse con un correttivo al rialzo, e invece, l’Italia come altri Paesi che avevano preso la medesima misura, ha deciso di abrogarla.

Sì… avete capito bene!

Un accordo con gli USA prevede che dal 2023 la tassazione ora in vigore venga abrogata in virtù dell’introduzione di una nuova tassa globale sulle multinazionali big tech.

Le multinazionali, dunque, dovranno pagare una imposta.

Ma…

nulla sappiamo sull’entità e sulla forma che assumerà questa imposta, mentre sappiamo che una parte dei profitti saranno tassati nel paese in cui la multinazionale opera, e gli USA hanno già promesso ingenti sgravi fiscali.

Non solo: sappiamo anche che la nuova global tax almeno in un primo momento sarà a carico dello Stato, infatti le multinazionali, invece di pagare verranno risarcite della parte di prelievo fiscale superiore a quanto le aziende hi-tech avrebbero pagato se l’intesa sulla global minimum tax fosse entrata in vigore prima.

Evidentemente, la nuova tassa sarà più vantaggiosa, un vero e proprio regalo degli Stati alle multinazionali del web.

Vogliamo un sistema fiscale equo e una tassazione vera dei profitti di chi si arricchisce grazie alla manodopera sparsa in tutto il mondo. Dobbiamo batterci perché questi profitti vengano restituiti alla collettività!

venerdì 22 ottobre 2021

Aumentano i poveri, e il Governo attacca il Reddito di Cittadinanza

 Nell’ultimo anno quasi due milioni di persone, nel nostro Paese, si sono rivolte a un centro della Caritas per avere un pasto caldo, un posto dove dormire o fare una doccia. Di queste, circa la metà è considerato un ‘nuovo povero’, cioè una persona la cui condizione materiale è peggiorata drammaticamente nell’ultimo anno.

Donne (soprattutto con bambini) e giovani tra i 18 e i 34 anni sono tra le categorie più ferocemente colpite. Sono i numeri drammatici che si possono leggere nell’ultimo Rapporto Caritas sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia.

Dei nuovi poveri, uno su quattro è un lavoratore, il 18% sono pensionati, e solamente uno su cinque è beneficiario del Reddito di Cittadinanza (RdC). Con tempismo perfetto, il Governo Draghi sta discutendo in questi giorni di tagliare le risorse stanziate per questa misura.

I dati Istat ci raccontano, anche, che circa due milioni di famiglie, pari a 5,6 milioni di persone, si trovano in una situazione di povertà assoluta: si tratta di soggetti indigenti, che non raggiungono una soglia di spesa sufficiente a garantire i bisogni essenziali, a testimonianza di una situazione diffusa di sofferenza estrema.

La cifra supera gli 8 milioni di persone se facciamo invece riferimento alle persone che versano in una situazione di ‘forte disagio economico’. Nonostante la pandemia abbia lasciato in eredità un milione di indigenti in più, il semplice reperimento di 200 milioni di euro per finanziare il RdC da qui a fine anno, una goccia infinitesimale nel bilancio dello Stato, è servito da scintilla per far partire l’assalto alla diligenza, con la Lega e Italia Viva a scagliarsi contro quello che la loro anima gemella Giorgia Meloni ha definito ‘metadone di Stato’.

Qualche numero può servire a fornire il contesto: il numero di nuclei familiari beneficiari di almeno una mensilità di RdC era di circa un milione nel 2019; negli ultimi due anni questo numero è aumentato fino ai circa un milione e 700 mila dei primi otto mesi del 2021.

Di pari passo è aumentato anche l’ammontare di risorse necessario a finanziare la misura, dai poco più di 7 miliardi annui pensati originariamente fino ai quasi 9 miliardi richiesti dalla situazione di crisi che stiamo attraversando da un anno e mezzo. Se le risorse per l’anno corrente sono infine state reperite, l’attenzione si sposta ora sul 2022, per cui mancano all’appello ancora circa 800 milioni di euro.

Il fronte è, però, più ampio, e tutte le anime della variegata maggioranza che sostiene il Governo Draghi, con gradi maggiori o minori di ferocia (compresi il segretario del PD Enrico Letta e il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte), concordano sulla necessità di riformaremodificare e aggiornare il RdC, un giro di parole che vuol dire tagliare le risorse dedicate a questa misura e/o rendere le condizioni di accesso più stringenti e penalizzanti. Si parla, infatti, di una decurtazione di un miliardo di euro da effettuare in tempi rapidi, un taglio che dovrebbe poi raddoppiare a regime.

Ingrediente indispensabile di tutte le argomentazioni addotte a supporto di un tale intervento è il vecchio e banale mito della scarsità delle risorse, che recita più o meno così: ci sono molte cose importanti da realizzare, urgenti e prioritarie, come ad esempio la riforma fiscale o la riforma degli ammortizzatori sociali.

Per poter fare ciò, servono soldi, e i soldi – prosegue il mito – non crescono sugli alberi: se spendi un euro in più da una parte, in ossequio ai trattati europei, ne devi spendere uno in meno da un’altra. Un ragionamento particolarmente curioso in questi mesi, trascorsi nell’ebrezza indotta dalla narrazione di una valanga di miliardi in arrivo a cascata dall’Europa solidale.

Un ragionamento, oggi e sempre, completamente privo di senso economico, dato che uno Stato può serenamente aumentare i propri livelli di spesa semplicemente decidendo di farlo, contribuendo in tal maniera, tra l’altro, ad aumentare il reddito nazionale e il benessere della popolazione.

Cosa farebbe, quindi, un Governo che volesse rispettare il mantra delle risorse scarse? Secondo i dati forniti dall’INPS, due terzi dei beneficiari del RdC non sono ‘occupabili’, per ragioni anagrafiche (soggetti disoccupati ma prossimi al pensionamento) o a causa di bassi livelli di istruzione.

Ecco, quindi, che il taglio dovrebbe ricadere quasi interamente sulle spalle dei circa 1,2 milioni di percettori, un terzo della platea totale, che sono invece reputati ‘idonei’ a partecipare al mercato del lavoro, e pertanto arruolabili dalle imprese.

Le idee che filtrano e che sarebbero allo studio rappresentano perfettamente l’idea di un RdC da usare come arma di ricatto e di pressione al ribasso su salari e diritti: assegno decurtato dopo che si rifiuta un lavoro e che va a scalare nel tempo, obbligo di accettare contratti anche di due mesi fino alle suggestioni dell’ex presidente dell’INPS Tito Boeri di un RdC differenziato su base geografica, di un ammontare minore nelle regioni del sud.

Il Reddito di Cittadinanza, fin dalla sua nascita, presentava numerose insidie. È innegabile, però, che abbia fornito, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, una forma di sussistenza minima per un grande numero di nuclei familiari schiacciati dalla crisi. Il messaggio che il Governo Draghi vuole lanciare, però, è forte e chiaro: se reddito deve essere, che sia minimo e solamente per chi, altrimenti, morirebbe direttamente di fame.

Per tutti gli altri, deve diventare un altro, ennesimo strumento con cui spostare i rapporti di forza a favore della classe padronale e spingere per ottenere salari più bassi e condizioni lavorative peggiori.

Mentre i media continuano a dirci quanto il Governo dei competenti sia all’opera per spendere al meglio i fiumi di denaro del PNRR, l’esecutivo va avanti per la sua strada fatta di riforme liberiste volte a smantellare gli ultimi baluardi di stato sociale presenti nel nostro Paese.

È in questa prospettiva che va letta la discussione in seno alla maggioranza circa la possibile riforma del Reddito di Cittadinanza, sempre meno considerato un sussidio e sempre più visto come una misura da associare alla riforma degli ammortizzatori sociali, il cui corollario principale siano le politiche attive del lavoro.

giovedì 14 ottobre 2021

G20: “Droni, 500 militari in più.”

 

Dopo i violenti scontri e le polemiche relative alla gestione dell’ordine pubblico nel corso delle manifestazioni contro il Green pass di sabato scorso a Roma, e in vista dell’entrata in vigore dell’obbligo della certificazione verde sul posto di lavoro a partire da venerdì 15 ottobre, il Viminale intensificherà «le attività di prevenzione delle possibili cause di turbativa, con il rafforzamento dei dispositivi di osservazione e di vigilanza del territorio e degli obiettivi sensibili».

“Per assicurare lo svolgimento in sicurezza del G20, è stata anche condivisa l’esigenza di implementare di 500 unità aggiuntive delle Forze armate il contingente dell’Operazione ‘Strade Sicure'”, si legge nella nota.


“Inoltre, per quell’occasione, sarà incrementata la sorveglianza e la difesa dello spazio aereo della Capitale attraverso il concorso di assetti specialistici, ivi incluso il sistema anti-drone, delle Forze armate”, prosegue il documento.

La riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica è stata presieduta dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. All’incontro, oltre al sottosegretario di Stato Nicola Molteni, hanno partecipato i vertici delle Forze di polizia e degli organismi di informazione e sicurezza, così come il prefetto e il questore di Roma.

mercoledì 6 ottobre 2021

Quale futuro per il PPE

 Molti si domandano quali riflessi potrà avere l’esito del voto in Germania In europa, dopo la fine del lungo “regno” di Angela Merkel alla guida del paese, considerando quale fosse il peso della cancelliera anche a bruxelles. Sicuramente il nuovo governo che nascerà dopo una lunga gestazione, visto la grande frammentazione del voto tedesco, avrà un peso importante sugli assetti europei, dove secondo alcuni l’asse italo francese potrebbe tornare a giocare un ruolo da protagonista. Draghi e Macron, non a caso da mesi stanno tessendo una sottile trama per cercare di controbilanciare il vuoto che inevitabilmente si aprirà con la fine della carriera politica della Merkel.

La prima riflessione che occorre fare a caldo è che l’eredità che lascia la signora sarà molto ingombrante sia in patria che in Europa. L’incertezza estrema del voto dimostra pienamente quanto l’elettorato tedesco sia smarrito di fronte alla perdita di un premier che ormai era diventato come una mamma rassicurante per la prima potenza industriale del continente. Il sostanziale equilibrio delle forze in campo non ha decretato un sicuro vincitore, ma ha certamente sancito una sconfitta storica proprio per il partito della Merkel, quella Cdu, scesa clamorosamente per la prima volta sotto il 30%.

Certo il candidato Armin Laschet si è dimostrato troppo debole, poco credibile e soprattutto completamente inadeguato, con una serie di gaffe fino alla ultima clamorosa proprio il giorno del voto, a sostituire un mostro sacro come Angela Merkel. Ma altrettanto sicuro è che il partito fosse entrato in crisi già da qualche anno, con un calo di voti quasi ad ogni appuntamento elettorale degli ultimi 5 anni (nelle elezioni del 2017 la coalizione cdu/csu registrò un calo del’8% dei consensi rispetto a quattro anni prima). Una perdita di consenso a cui nemmeno la leadership della Merkel sembrava riuscire a frenare.

Ora tornando alle cose europee resta da capire, oltre ai risvolti in linea generale che questo voto potrà avere sulla politica europea e soprattutto su quella riguardanti le regole di bilancio degli Stati ( una coalizione assai probabile con dentro socialisti verdi e i liberali potrebbe rappresentare un serio problema in tal senso per la possibile richiesta tedesca di maggiore austerità ), è altrettanto interessante capire quello che questo potrà  provocare all’interno di quello che molti considerano ormai come il “grande malato” di questi anni, e cioè il partito popolare europeo, in crisi di identità ed ora senza più una leadership chiara che lo  possa guidare.

D’altra parte la Germania e la Merkel erano forse l’ultimo baluardo rimasto in Europa come espressione diretta del grande partito popolare europeo. Ora la crisi sembra arrivata ad un punto di svolta decisivo, senza la quale per il Ppe la crisi rischia di diventare quasi irreversibile. Perché la crisi del Ppe comincia sicuramente con la crisi dei principali partiti nazioanli liberali, a cominciare dai popolari in Spagna, per arrivare a Forza Italia di Berlusconi, per arrivare ai conservatori francesi, alla Cds portoghese fino alla cdu in Germania adesso.

Tutti sconfitti e non più maggioranza, non solo perché sconfitti dalle sinistre, ma spesso anche perché non hanno saputo far fronte alle avanzate straripanti di un destra, troppo semplicisticamente e superficialmente definita populista (sempre che poi a questo termine si voglia riconoscere una accezione negativa tout court). In Italia Fratelli d’Italia e Lega, in portogallo Chega, In Francia RN, e in Germania Afd hanno sicuramente svuotato con i loro exploit, a due cifre, soprattutto il bacino di voti che solitamente andava ad ingrossare i grandi partiti di tradizione popolare.

Ora nessuno dei grandi paesi europei è governato da un esponente del partito popolare europeo. Se si pensa che solo dieci anni fa Spagna, Francia, Germania ed Italia erano governati tutti da esponenti di partiti della grande famiglia dei popolari, la situazione deve molto far riflettere. Questo ribaltamento della situazione fa capire come la situazione sia diventata, infatti, assai preoccupante per un partito, che in questo momento esprime il presidente della Commissione europea, che inevitabilmente rischia di essere indebolita da questo inatteso crollo del suo partito in patria.

Al ppe in Europa manca da troppo tempo una chiara e precisa linea politica, ed ora manca anche del tutto d’una chiara e sicura leadership. Un partito storico che per anni ha condotto invece la linea politica dell’Unione adesso si vede sempre più spesso, scavalcato da destra dai conservatori dell’Ecr di Giorgia Meloni e al centro dai liberali e dai verdi che spesso fanno fronte comune con i socialisti ponendo il Ppe in minoranza.

Ecco allora che ora trovare nuova linfa e soprattutto un nuovo leader carismatico che riesca a fare uscire il glorioso Ppe dalle secche in cui pare essere finito in questi ultimi anni, non sarà certo impresa facile. La lezione che i partiti popolari europei devono imparare dalla lezione tedesca è che non si può fare troppo affidamento solo sul peso di un leader seppur carismatico ed autorevole come la cancelliera tedesca. Occorre ritrovare quello spirito, quella unità di intenti, quella compattezza e quel decisionismo, che ha permesso al partito popolare di essere il cardine della costituzione dell’Unione europea.

Il rischio che il partito corre, in caso contrario, potrebbe quello di essere cannibalizzato da chi come l’ecr sta dimostrando sicuramente di avere una sua linea politica che invece proprio con compattezza, coerenza, e unità di intenti cerca di perseguire. Altra eventualità potrebbe essere quella di operare una federazione di tutti i partiti di centrodestra, accogliendo anche chi come la lega di Salvini adesso appartiene ad un gruppo come Identità e democrazia, da cui da sempre i popolari hanno cercato di prendere le distanze. Insomma il rischio comunque che corre un ppe, mai così debole come ora, è quello di rimanere sempre più ai margini della politica europea, stretto nel mezzo fra socialisti e liberali da una parte e sovranisti e conservatori dall’altra. Insomma non certo una bella situazione per chi ha comunque contribuito in maniera determinante negli anni a creare e rafforzare l’unione europea. Che poi il risultato per ora raggiunto, sia stato ben al di sotto delle aspettative e degli auspici questo è tutt’altro discorso, ci cui certo non se può fare carico solo il ppe.