Nell’ultimo anno quasi due milioni di persone, nel nostro Paese, si sono rivolte a un centro della Caritas per avere un pasto caldo, un posto dove dormire o fare una doccia. Di queste, circa la metà è considerato un ‘nuovo povero’, cioè una persona la cui condizione materiale è peggiorata drammaticamente nell’ultimo anno.
Donne (soprattutto con bambini) e giovani tra i 18 e i 34 anni sono tra le categorie più ferocemente colpite. Sono i numeri drammatici che si possono leggere nell’ultimo Rapporto Caritas sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia.
Dei nuovi poveri, uno su quattro è un lavoratore, il 18% sono pensionati, e solamente uno su cinque è beneficiario del Reddito di Cittadinanza (RdC). Con tempismo perfetto, il Governo Draghi sta discutendo in questi giorni di tagliare le risorse stanziate per questa misura.
I dati Istat ci raccontano, anche, che circa due milioni di famiglie, pari a 5,6 milioni di persone, si trovano in una situazione di povertà assoluta: si tratta di soggetti indigenti, che non raggiungono una soglia di spesa sufficiente a garantire i bisogni essenziali, a testimonianza di una situazione diffusa di sofferenza estrema.
La cifra supera gli 8 milioni di persone se facciamo invece riferimento alle persone che versano in una situazione di ‘forte disagio economico’. Nonostante la pandemia abbia lasciato in eredità un milione di indigenti in più, il semplice reperimento di 200 milioni di euro per finanziare il RdC da qui a fine anno, una goccia infinitesimale nel bilancio dello Stato, è servito da scintilla per far partire l’assalto alla diligenza, con la Lega e Italia Viva a scagliarsi contro quello che la loro anima gemella Giorgia Meloni ha definito ‘metadone di Stato’.
Qualche numero può servire a fornire il contesto: il numero di nuclei familiari beneficiari di almeno una mensilità di RdC era di circa un milione nel 2019; negli ultimi due anni questo numero è aumentato fino ai circa un milione e 700 mila dei primi otto mesi del 2021.
Di pari passo è aumentato anche l’ammontare di risorse necessario a finanziare la misura, dai poco più di 7 miliardi annui pensati originariamente fino ai quasi 9 miliardi richiesti dalla situazione di crisi che stiamo attraversando da un anno e mezzo. Se le risorse per l’anno corrente sono infine state reperite, l’attenzione si sposta ora sul 2022, per cui mancano all’appello ancora circa 800 milioni di euro.
Il fronte è, però, più ampio, e tutte le anime della variegata maggioranza che sostiene il Governo Draghi, con gradi maggiori o minori di ferocia (compresi il segretario del PD Enrico Letta e il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte), concordano sulla necessità di riformare, modificare e aggiornare il RdC, un giro di parole che vuol dire tagliare le risorse dedicate a questa misura e/o rendere le condizioni di accesso più stringenti e penalizzanti. Si parla, infatti, di una decurtazione di un miliardo di euro da effettuare in tempi rapidi, un taglio che dovrebbe poi raddoppiare a regime.
Ingrediente indispensabile di tutte le argomentazioni addotte a supporto di un tale intervento è il vecchio e banale mito della scarsità delle risorse, che recita più o meno così: ci sono molte cose importanti da realizzare, urgenti e prioritarie, come ad esempio la riforma fiscale o la riforma degli ammortizzatori sociali.
Per poter fare ciò, servono soldi, e i soldi – prosegue il mito – non crescono sugli alberi: se spendi un euro in più da una parte, in ossequio ai trattati europei, ne devi spendere uno in meno da un’altra. Un ragionamento particolarmente curioso in questi mesi, trascorsi nell’ebrezza indotta dalla narrazione di una valanga di miliardi in arrivo a cascata dall’Europa solidale.
Un ragionamento, oggi e sempre, completamente privo di senso economico, dato che uno Stato può serenamente aumentare i propri livelli di spesa semplicemente decidendo di farlo, contribuendo in tal maniera, tra l’altro, ad aumentare il reddito nazionale e il benessere della popolazione.
Cosa farebbe, quindi, un Governo che volesse rispettare il mantra delle risorse scarse? Secondo i dati forniti dall’INPS, due terzi dei beneficiari del RdC non sono ‘occupabili’, per ragioni anagrafiche (soggetti disoccupati ma prossimi al pensionamento) o a causa di bassi livelli di istruzione.
Ecco, quindi, che il taglio dovrebbe ricadere quasi interamente sulle spalle dei circa 1,2 milioni di percettori, un terzo della platea totale, che sono invece reputati ‘idonei’ a partecipare al mercato del lavoro, e pertanto arruolabili dalle imprese.
Le idee che filtrano e che sarebbero allo studio rappresentano perfettamente l’idea di un RdC da usare come arma di ricatto e di pressione al ribasso su salari e diritti: assegno decurtato dopo che si rifiuta un lavoro e che va a scalare nel tempo, obbligo di accettare contratti anche di due mesi fino alle suggestioni dell’ex presidente dell’INPS Tito Boeri di un RdC differenziato su base geografica, di un ammontare minore nelle regioni del sud.
Il Reddito di Cittadinanza, fin dalla sua nascita, presentava numerose insidie. È innegabile, però, che abbia fornito, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, una forma di sussistenza minima per un grande numero di nuclei familiari schiacciati dalla crisi. Il messaggio che il Governo Draghi vuole lanciare, però, è forte e chiaro: se reddito deve essere, che sia minimo e solamente per chi, altrimenti, morirebbe direttamente di fame.
Per tutti gli altri, deve diventare un altro, ennesimo strumento con cui spostare i rapporti di forza a favore della classe padronale e spingere per ottenere salari più bassi e condizioni lavorative peggiori.
Mentre i media continuano a dirci quanto il Governo dei competenti sia all’opera per spendere al meglio i fiumi di denaro del PNRR, l’esecutivo va avanti per la sua strada fatta di riforme liberiste volte a smantellare gli ultimi baluardi di stato sociale presenti nel nostro Paese.
È in questa prospettiva che va letta la discussione in seno alla maggioranza circa la possibile riforma del Reddito di Cittadinanza, sempre meno considerato un sussidio e sempre più visto come una misura da associare alla riforma degli ammortizzatori sociali, il cui corollario principale siano le politiche attive del lavoro.