mercoledì 29 maggio 2013

L'ITALIA CONDANNATA ALL'AUSTERITA'?

Non è uno scherzo o un tentativo maldestro di mettere in piedi una trama di fantapolitica. Sapevamo che la tragica approvazione, tramite Pd-Pdl, del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio in Costituzione avrebbe provocato danni permanenti a questo paese. Danni dei quali non si ha ancora chiara l’effettiva portata. Pensando magari che “la crescita” arriva davvero “risanando” parte dello stato del paese. L’Istat, che non è una casa editrice di fantascienza ma l’istituto nazionale di statistica, mette invece in guardia su quanto sta realmente accadendo in questo paese. Ha infatti pubblicato una simulazione su quanti anni occorrono a due paesi dell’Eurozona, praticando l’austerità, per raggiungere i parametri fissati dal Fiscal Compact e dal pareggio di bilancio in Costituzione, grazie alla guida del Six Pack e del Two Pack, gli accordi tra stati dell’Eurozona che prevedono rigidità di bilancio e sorveglianza ferrea di Bruxelles.
Per quanto riguarda un paese della taglia della Germania, gli anni di austerità da percorrere per arrivare alla situazione di bilancio definita ottimale dai “La strada”, film tratto dal romanzo di McCarthyvari accordi nell’Eurozona sono sette. Non è comunque poco per un paese che deve far fronte a una situazione interna dove sono emerse nuove povertà. Il problema è che, secondo le simulazioni Istat, per rispettare il Fiscal Compact secondo le regole che si è data l’Eurozona, l’Italia dovrebbe impiegare almeno 80 (!) dei propri anni in politiche di austerità, in una sorta di liturgia perpetua dei sacrifici da tramandarsi di generazione in generazione. E’ però impensabile che un quadro così fallimentare, non di una congiuntura economica ma di un modello di sviluppo, non abbia effetti sulla politica istituzionale.
Si guardi al dibattito sulla riforma elettorale. Dopo la sentenza della Corte di Cassazione, che contesta la costituzionalità del premio di maggioranza nell’attuale legge elettorale, si discute su “poche modifiche” delle legge in vigore. L’effetto però sarebbe di ottenere una legge quasi proporzionale. In sé non sarebbe un problema ma guardiamo all’effetto politico: renderebbe obbligatoria, alle élite di questo paese, una alleanza organica Pd-Pdl. O, se si preferisce, la stabilizzazione di quella attualmente al governo che altro non è che la prosecuzione dell’alleanza Monti. Tutto per salvare le esigenze dell’oligarchia al potere in Italia, che vampirizza le risorse del paese garantendo l’austerità per “l’Europa”, e non dover mettere in discussione un assetto politico-economico che fa bene solo alla finanza globale. Poi, per far sembrare che tutto più o meno sia come sempre, ci sono le solite strategie di banalizzazione. “Repubblica”, “Corriere” e telegiornali lavorano in questo senso. Resta solo da capire però a chi scoppierà in faccia, e quando, questa situazione

venerdì 17 maggio 2013

La requisitoria della Boccassini

Ilda Boccassini ha defnito il comportamento di Ruby da "furbizia orientale". Apriti cielo. Chi era a caccia del pretesto per criticarla, ha trovato la parola a cui inchiodarla: “orientale”. Un aggettivo che proverebbe il razzismo di Ilda la rossa, il suo pregiudizio contro gli stranieri e la sua disumanità. Impossibile ragionare con chi non vuole sentire ragioni, ma per capire il senso di quell’espressione basta ascoltare (davvero) la requisitoria e comprendere il contesto in cui quell’aggettivo è inserito. Davvero la pm, trasportata dalla foga, ha rivelato la sua essenza culturalmente razzista? Proviamo a vedere come è arrivata a parlare della “furbizia orientale” di Ruby.
Il tema in discussione era non la ragazza (che nel processo è “parte offesa”), ma suo padre. Per ben due volte, in due diversi punti della sua lunga requisitoria, Ilda Boccassini ha tentato di ripristinare la verità sulla figura di M’hamed El Mahroug. La figlia lo ha descritto come un padre-padrone, cattivo e violento, che l’avrebbe maltrattata fin da piccola e sarebbe giunto perfino a versarle addosso dell’olio bollente. Un musulmano perfido e torturatore.
Non è vero, ha spiegato la pm. Gli operatori sociali e gli educatori di comunità che da anni conoscono Ruby e la sua famiglia (la ragazza è scappata di casa la prima volta quando aveva 14 anni) raccontano di due genitori poveri e privi di strumenti culturali sofisticati, ma pacifici, dignitosi e onesti. La madre lavora in casa e cresce i figli. Il padre fa l’ambulante e vive una vita umile ma decorosa. La cicatrice in testa che Karima esibisce per commuovere gli interlocutori non le è stata procurata dal padre, ma è il risultato di un incidente domestico capitato alla madre quando la bambina era piccola.
È Karima, diventata Ruby, a inventarsi la storia del padre cattivo, che reagisce con violenza alla sua volontà di farsi cristiana. Approfitta, sostiene Boccassini, di un diffuso clima culturale, questo sì razzista e anti-islamico, “sfruttando da furba le difficoltà culturali dell’integrazione”. Si fa accettare in un contesto che sa pieno di pregiudizi, rinnegando le proprie origini e cavalcando quei pregiudizi: “Mi volevo fare cristiana e mio padre mi ha punito con l’olio bollente”.
La storia, secondo gli educatori della comunità siciliana che ha ospitato la piccola Karima, è falsa. Ma siccome serve ad accreditare l’immagine di Ruby brava ragazza perseguitata e bisognosa d’aiuto, ecco che le tv Mediaset e i giornali di famiglia diffondono una falsità, perché questa serve a difendere il loro padrone, cioè l’imputato del processo, il generoso Silvio Berlusconi.
E allora: chi dimostra i propri pregiudizi, chi fa trapelare una cultura razzista? La magistrata che tenta di ristabilire la verità su un pover’uomo, marocchino e islamico, che ha a che fare con una figlia difficile; oppure le tv, i quotidiani e i rotocalchi che strumentalmente diffondono la favola della ragazza che vuole diventare cristiana, oppressa dal padre musulmano malvagio e violento?

mercoledì 1 maggio 2013

La cambiale pagata al Caimano


La politica è l’arte di scegliere come distribuire risorse scarse sapendo che non si possono accontentare tutti. Che qualcuno protesterà, ma non sempre chi urla più forte ha anche ragione. Il governo di Enrico Letta nasce invece promettendo tutto a tutti. Il primo risultato concreto lo incassano Silvio Berlusconi e il suoPdl che avevano vincolato la fiducia alla cancellazione dell’Imu.
L’odiata imposta sugli immobili viene sospesa, a giugno non si pagherà in attesa di una riforma complessiva. Eppure Letta impronta il suo discorso di insediamento su un’altra linea: la priorità del Paese è il lavoro, la coesione sociale dipende dalla capacità del governo di arginare il numero dei disoccupati. Non c’è razionalità economica nel cominciare invece dall’Imu. Secondo i calcoli del centro studi Nens, bastano 400 milioni di euro per esentare dall’Imu il 20 per cento degli italiani più poveri, restituendo loro anche quanto pagato nel 2012. Per ragioni elettorali Berlusconi impone invece un’operazione da almeno 2 miliardi (4 se si arriva alla abolizione completa, 8 restituendo le quote 2012). Il Pd subisce, incapace perfino di ricordare che aveva proposto più o meno la stessa cosa prima del voto. Non c’è un solo economista in buona fede che veda nell’Imu l’origine dei mali italiani. Anche il Berlusconi di una volta chiedeva di spostare le tasse dalle persone alle cose, meglio penalizzare la ricchezza improduttiva piuttosto che imprenditori e lavoratori.
Ma il problema è che le larghe intese sono in realtà uno stretto cappio al collo di Letta. Il nuovo premier dimostra di avere la caratura per il compito che è chiamato a svolgere: ha una solida convinzione europeista, rinnega l’approccio da ragioniere che ha caratterizzato spesso il governo Monti, con stangate a ogni zero virgola di deficit in più, capisce l’esigenza di rinnovamento, nel Palazzo e fuori. Ma l’ampiezza della coalizione gli impone di aprire un libro dei sogni in cui non ci sono cifre ma soltanto suggestioni. I soli interventi quantificabili valgono almeno 10 miliardi, che diventeranno molti di più se ai tanti annunci seguiranno provvedimenti concreti. Dove si trovano i soldi? Letta non chiede sacrifici, non annuncia patrimoniali o liberalizzazioni che potrebbero preoccupare le lobby, ma promette: ai giovani, ai pensionati, agli assunti, ai disoccupati, agli esodati, ai precari, ai produttori di energia rinnovabile. I “saggi” riuniti da Napolitano avevano un altro approccio: i soldi disponibili devono andare ai redditi da lavoro più bassi, inutile disperdere le poche risorse tra mille voci. Ma ora sono tornati i politici che amano l’effetto annuncio.
Enrico Letta prende impegni che sa di non poter mantenere. Ma d’altra parte, il Pd aveva anche promesso che non si sarebbe mai alleato con Berlusconi. E gli elettori ormai hanno capito quanto possono fidarsi.