Uno degli elementi più negativi nel pensiero comunista europeo degli ultimi 30 anni è sicuramente rappresentato da una concezione astratta del “socialismo”. Ridotto a una serie di princìpi totalmente indipendenti dalla realtà storica, validi in modo identico per qualsiasi formazione sociale (europea, asiatica, africana o americana), pressoché impossibili da rispettare concretamente. Una sorta di paradiso originario collocato nel lontano futuro anziché nel passato remoto.
Una volta identificato il “socialismo” con questo mondo ideale (variabile a seconda delle preferenze individuali, per di più) è inevitabile che il confronto con le esperienze concrete sia sempre negativo.
Ricordiamo che la definizione di Marx era molto più laica: da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro. Che è certamente una formulazione astratta, ma che descrive un criterio invece che una serie di “istituti” teoricamente caratterizzanti una formazione sociale “socialista” (inevitabilmente varianti a seconda del livello di sviluppo di un certo paese, le tradizioni locali, le culture, ecc). L’”eguaglianza” – per esempio – in condizioni di povertà o di relativo benessere generale, in pace o in guerra, ecc, può significare cose molto diverse.
Parlando di Cina – come abbiamo visto anche nel convegno dedicatole lo scorso anno – questo scarto tra socialismo ideale e concreta costruzione di una società viene fuori continuamente. Condanne e beatificazioni si alternano continuamente, senza cogliere alcun elemento essenziale, come se nutrire, vestire, far vivere in modo soddisfacente una popolazione nel frattempo cresciuta fino a 1,4 miliardi di persone, non fosse un problema. E pure gigantesco.
L’elemento essenziale distintivo tra regime capitalistico e “socialismo in costruzione” – andiamo ripetendo da tempo, con gradi di approssimazione, speriamo, sempre più precisi – è secondo noi la relazione tra Stato e mercato, tra pianificazione e “anarchia” della “libera impresa”.
Specie in ciò che resta de movimento italiano “il mercato” viene identificato tout court con “il capitalismo”, come se non fosse un luogo e una dinamica esistente da sempre, in qualsiasi modo di produzione e formazione sociale. Le popolazioni che vivevano sulla costa scambiavano parte dei loro prodotti con quelle che vivevano nell’entroterra, e lo stesso avveniva tra montagna e pianura, ecc.
“Il mercato” è insomma insopprimibile perché forma stabile e concreta delle relazioni tra gli esseri umani, che il capitalismo ha “sussunto e trasformato” secondo la sua logica e imponendogli la sua logica.
Le esperienze socialiste che hanno provato a farne a meno si sono ritrovate con molti problemi irrisolvibili e che anche la migliore pianificazione non poteva prevedere, normare, sciogliere.
Non ci sorprende che questa relazione essenziale tra Stato e mercato venga invece colta, con grandissima precisione, da analisti abituati a farci i conti quotidianamente, su giornali economici altamente specializzati. Da gente, insomma, che vede molto concretamente dove “il mercato capitalistico” domina senza avversari, disponendo a proprio piacimento delle istituzioni politiche statuali e degli organismi internazionali, e dove invece si deve subordinare a un potere politico che persegue un progetto, ovviamente variabile nel tempo a seconda dei risultati – positivi e negativi – registrati.
Ancor meno ci sorprende che a cogliere con grande precisione questa relazione, nel caso della Cina, sia Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza. Per esperienza personale, essendo stato fra l’altro vicesegretario generale di Palazzo Chigi, sa bene cosa uno Stato può fare, volendo, e cosa “il mercato”, lasciato a se stesso, pretende.
Nessun commento:
Posta un commento