Da ormai qualche settimana, è tutto un profluvio di ottimismo ed entusiasmo per la ripresa economica italiana, sparso a piene mani da membri del Governo e istituzioni internazionali.
Nonostante la realtà che ci circonda dica esattamente il contrario, nonostante l’incombente cancellazione del blocco dei licenziamenti sia destinata a far esplodere il numero di persone che perderanno un lavoro, i principali mezzi di comunicazione provano a dipingere una realtà alternativa.
Mentre però l’attenzione pubblica è catturata dalla propaganda, le istituzioni europee lanciano segnali inequivocabili su quella che sarà la gestione delle finanze pubbliche nel post-pandemia: esattamente la stessa di prima, con il ritorno a spron battuto di una rigida applicazione del progetto politico dell’austerità.
Basta leggere, d’altronde, alcune recenti dichiarazioni di Paolo Gentiloni, il commissario europeo all’economia. L’occasione è fornita dalla conferenza stampa sul Semestre Europeo (sì, quel Semestre Europeo, l’elenco dei compiti a casa da fare per avere accesso al cosiddetto Recovery Fund).
Ma cosa ha dichiarato, quindi, la Commissione Europea per bocca di Gentiloni?
A prima vista, le parole dell’ex Presidente del Consiglio italiano dovrebbero suonare rassicuranti. Gentiloni ha, come prima cosa, confermato che il Patto di Stabilità è sospeso fino al 2022.
Il Patto di Stabilità (e le sue successive evoluzioni) rappresenta lo strumento che meglio esprime la disciplina di bilancio prevista dai trattati europei, imponendo un limite artificioso alla spesa pubblica che, per sua natura, penalizza le classi meno abbienti, quelle che maggiormente beneficiano dei servizi pubblici.
In altre parole, si restringe fortemente la possibilità per un Paese di ricorrere al debito pubblico, ossia a quello strumento di politica economica che consente di spendere risorse – per sostenere i redditi e lo stato sociale – senza dover mettere le mani in tasca ai lavoratori.
Quando è scoppiata l’emergenza sanitaria, l’Unione Europea ha deciso di ‘sospendere’ il Patto di Stabilità, attraverso l’attivazione della cosiddetta “clausola di salvaguardia”.
Sospendere il Patto di Stabilità significa che, per un certo periodo, l’Europa permette ai singoli Stati di non rispettare i parametri economici e finanziari (uno su tutti, il pareggio di bilancio), lasciando così la possibilità di sostenere l’economia tramite la leva della spesa pubblica in un momento di grave crisi. In altri termini, di fronte a questa emergenza gli Stati hanno potuto ‘spendere a debito’, al contrario di quanto invece non possono fare, in ossequio alle regole europee, in tempi normali.
Di nuovo, una semplice osservazione della realtà è più che sufficiente per capire come questa flessibilità concessa dalle istituzioni europee sia stata del tutto insufficiente per lenire le ferite della pandemia.
Ciò non impedisce però alla Commissione, per bocca di Gentiloni, di lanciare un monito severo: i tempi della flessibilità stanno per finire e il Patto di Stabilità tornerà in vigore dal 2023.
Contestualmente, la Commissione inizia già a mettere in guardia i Paesi che hanno un debito pubblico elevato, Italia in primis, ribadendo che occorre fin da ora rimettersi sui binari dell’austerità, evitando di programmare spese eccessive che, per l’appunto, possano compromettere l’obiettivo del pareggio nei prossimi anni.
Le parole sono inequivocabili: “bisogna fare attenzione alla spesa corrente e alle spese che possano costituire un peso permanente oltre l’orizzonte temporale del 2023. Dire che non bisogna ritirare il sostegno troppo presto non significa non tenere conto dei livelli di spesa corrente che possano costituire peso permanente”.
Passata la festa, gabbato lo santo. Il ritorno del Patto di stabilità e della disciplina di bilancio significa, infatti, che dovremo rinunciare a salari, pensioni, istruzione, sanità e stato sociale in misura sempre crescente, già a partire dal futuro immediato.
D’altronde, era già tutto scritto nel Recovery Fund
La disciplina di bilancio che ci aspetta, e che Gentiloni annuncia oggi, sarà peraltro peggiore di quella sperimentata in passato, per via dei particolari vincoli che il Recovery Fund porta con sé. Assistiamo, infatti, a un salto di qualità nella somministrazione dell’austerità. Tra le varie condizioni che i Paesi sono chiamati a rispettare per ricevere le tranche di aiuti europei c’è, infatti, l’impegno a correggere i ‘disavanzi eccessivi’.
Tra i regolamenti attuativi del Recovery viene specificato che “La Commissione presenta al Consiglio una proposta di sospensione totale o parziale degli impegni o dei pagamenti qualora il Consiglio, … decida che uno Stato membro non ha adottato misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo”.
Questo significa, oltre ogni ragionevole dubbio, che i soldi del Recovery Fund saranno concessi solo in cambio di misure di austerità, ovvero “misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo”, nel linguaggio che tanto piace ai tecnici.
Ricordiamoci che le risorse del Recovery Fund arriveranno nel corso di sei anni: non appena saremo fuori dalla fase emergenziale, verrà ripristinato in pieno il controllo dei conti pubblici. Ogni euro gentilmente concesso all’Italia ci impedirà di spenderne 10, 20, 100 in disavanzo necessari per affrontare seriamente la crisi.
È il ricatto della condizionalità: le istituzioni europee vincolano con i loro aiuti l’operato dei governi nazionali per realizzare un disegno politico, l’austerità, che mira ad abbattere anche gli ultimi residui di stato sociale presenti nel nostro Paese.
Nel frattempo, in Italia
Il Governo Draghi non ha perso tempo, dal giorno del suo insediamento, con un susseguirsi di misure antipopolari, culminate nel recente Decreto Semplificazioni. In questo quadro, il Recovery Fund e le condizioni capestro per accedervi rappresentano il rientro dalla porta principale del ‘ce lo chiede l’Europa’, per preparare una nuova stagione di misure draconiane di tagli e sacrifici.
Il governo Draghi è il veicolo a cui è demandata oggi l’attuazione di questo progetto politico, ma lo strumento più potente e a più lunga gittata è il Recovery Fund, la cui condizionalità ci lega mani e piedi e peserà ben oltre la fine della presente legislatura.
Se lasciamo fare al nemico, usciremo dalla pandemia più poveri, mentre pochi privilegiati avranno trovato la maniera di vedere aumentare i loro profitti anche nel pieno della tempesta.
Non resta allora che lavorare in una sola possibile direzione: quella della liberazione da ogni vincolo esterno che limiti l’intervento dello Stato nell’economia e della riappropriazione di tutti quegli strumenti necessari per promuovere gli interessi della stragrande maggioranza del Paese rappresentata dalle classi subalterne.
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