Grazie a noi, Zuckemberg diventa miliardario mentre noi, grazie a lui, perdiamo
privacy e vita, tanta, troppa, e perdiamo anche baricentro,
concentrazione e obiettivo. Perdiamo, e basta.
Perché a fare un’analisi sincera, a fare due conti veri, e non da tossico che imbroglia sui grammi di “roba” giornalieri, le ore passate sui social media sono veramente troppe. Sì, sono minuti, a volte solo secondi che rubo al mio lavoro, a una lettura che interrompo perdendo climax e segno, e solo per comunicare al mondo i 140 caratteri che mi piacciono di più, per tenerlo al corrente dei miei progressi e delle mie letture, come se gliene fregasse qualcosa, al mondo, di me e delle mie scoperte. Forse, di rimando invierà due righe da una poesia della Merini, e che l’abbia letta per intero, c’è anche da scommetterci.
Ma naturalmente questo dubbio facciamo bene a tenercelo per noi, visto che dietro l’icona chiunque può fingersi ciò che non è.
Ma una buona volta, almeno adesso che sembriamo così responsabili e civili, facciamo una prova, e mettiamoli assieme questi attimi rubati, contiamoli, e il risultato sarà ragguardevole, forse, in molti casi spaventoso.
Perché anziché stare a sentire l’emozione di un tramonto crescere e serrarci il respiro, invece di cercare di capire dove risiede e da dove arriva quel brivido, scattiamo una foto e la mettiamo lì. Invece di sentire l’acquolina che sale in bocca, a tavola, prendiamo il piatto e lo mettiamo lì, lo mostriamo al mondo e al mondo diciamo: lo vedi? Non sono abbastanza bravo anch’io?
E ogni “mi piace” ci dà l’illusione di avere qualcuno seduto alla nostra tavola deserta, e a ogni commento di approvazione, è come se qualcuno bussasse alla porta di casa dove pare manchi sempre qualcosa.
Ma cos’è che ci manca veramente, qual è il vuoto e quanto è profondo per giustificare il continuo e ossessivo aggiornamento di stato?
Questa “ammucchiata partecipativa”, di cui parla il sociologo Geert Lovink che a dieci anni dal suo primo saggio lancia un secondo allarme con il libro “Ossessioni collettive”, quanto ci farà male?
Quanto siamo stretti, piegati e piagati, nell’affermazione di un “sé” che non è più deciso dal talento vero e proprio ma solo dall’incontro giusto e da un paio di retweet che ci danno l’illusione di cambiarci la vita?
Non mi va di levarmi su in alto ed elargire consigli o poetiche soluzioni, non posso, so di non avere l’autorevolezza né il carattere per farlo e anche perché, io per prima, ci sto dentro fino al collo. Semplicemente, sono alcune settimane che mi ripeto che così non va.
Credo di aver mancato troppi tramonti negli ultimi tre anni, troppe torte fatte in casa e corse, e sicuramente molto di più. E ho perso anche la nozione del tempo.
Facebook è stata la finestra da cui mostrare al mondo che valevo qualcosa.
In un momento in cui tutto crollava, la mia azienda, il matrimonio, il mio futuro, è stata un’illusione che mi ha aiutata, sì, ma mi ha anche fatto perdere lucidità e tempo.
FB ci dà solo la possibilità di provare con un clic di essere presenti, e di valere qualcosa in più, anche se la nostra vita così com’è ci soddisfa poco, perché poi, si sa che ciò che conta veramente non è l’approvazione di un post, ma continua a essere, e così sarà sempre, e giustamente, il riscontro effettivo, l’effetto reale delle nostre azioni sul vivere quotidiano.
FB non mi consente di dissentire, è una società virtuale tutta votata al positivo che ci costringe a essere compassionevoli per forza, comunque assai poco distante da twitter, dove migliaia di persone fanno a gara per scrivere qualcosa che sia più cool, più giusto, più divertente o più amaro degli altri.
Ma cosa cambia nelle nostre vite? Cosa ci sarà di diverso domani a parte qualche follower in più? Cosa sarà cambiato nel rapporto tra stato e cittadino.
Finora non mi pare che non abbiamo ribaltato il sistema né affossato lo strapotere delle banche. Questo, è un dato di fatto.
Fino ad oggi, a parte il consumo delle parole, anche le più belle e inusuali, e i Koan più complessi della tradizione zen ridotti a battute, mi pare che nulla sia cambiato.
È vero che il popolo del web organizza mobilitazioni, è vero che mostra solidarietà verso vittime innocenti e piange lacrime virtuali di fronte alle ingiustizie, ma succedeva anche prima e forse, l’effetto si consumava anche più lentamente.
Io confesso.
Sono stata presa nella rete, sono rimasta impigliata nelle maglie strettissime di questa falsa condivisione e al momento, mi pare anche che senza, il mondo rischierebbe di sparire all’improvviso ingoiato dai pixel.
Ma la verità, l’unica e tangibile, è che alla mia tavola siedono gli amici di sempre e che il mio blog riceve visite non da persone che cliccano “mi piace” ai miei post perché chi lo fa, compie atto di presenza, e basta. Come l’ospite invitato al vernissage che arriva imbellettato e solo per conoscere gente “che conta” e mangiare gratis al buffet. Chi condivide articoli senza nemmeno leggerli, non è troppo distante dal tizio che alla mia festa non vede l’ora di andarsene dopo aver bevuto cinque bicchieri di qualcosa ed essersi ingozzato di tartine.
Perché non siamo diventati più buoni, non siamo più impegnati socialmente, né più consapevoli.
La mia cultura e la mia consapevolezza vengono da lontano, da un mondo 0.0 e dalle ore che ho passato sui libri, e a teatro, e nei locali, ad ascoltare musica live. E anche quando siamo lì, oggi, tra la gente, nel mondo reale, mi domando perché continuiamo a sentirci in dovere di mettere al corrente il mondo su cosa facciamo, ciò che guardiamo, cosa mangiamo, chi vediamo.
È sempre un modo per affermarsi e mostrarsi, dimostrare a noi stessi, prima che agli altri, di essere ancora in vita.
Ci sentiamo vivi partecipando alle disgrazie altrui, ma sempre meno alle gioie e alle vittorie dell’altro, purtroppo, visto che questa realtà vive la frustrazione di un vero scollamento dal “friendly” cui siamo abituati on line, perché Zuk, ci ha dato l’illusione di poter giudicare chiunque e accedere ovunque quando poi, nella realtà, è sempre e solo la telefonata giusta che ci farà assumere da qualche parte o pubblicare da qualcuno.
Mi auguro soltanto, come ipotizza Lovink, che tra un po’ sarà molto poco cool controllare di continuo il proprio smartphone in pubblico.
Perché a fare un’analisi sincera, a fare due conti veri, e non da tossico che imbroglia sui grammi di “roba” giornalieri, le ore passate sui social media sono veramente troppe. Sì, sono minuti, a volte solo secondi che rubo al mio lavoro, a una lettura che interrompo perdendo climax e segno, e solo per comunicare al mondo i 140 caratteri che mi piacciono di più, per tenerlo al corrente dei miei progressi e delle mie letture, come se gliene fregasse qualcosa, al mondo, di me e delle mie scoperte. Forse, di rimando invierà due righe da una poesia della Merini, e che l’abbia letta per intero, c’è anche da scommetterci.
Ma naturalmente questo dubbio facciamo bene a tenercelo per noi, visto che dietro l’icona chiunque può fingersi ciò che non è.
Ma una buona volta, almeno adesso che sembriamo così responsabili e civili, facciamo una prova, e mettiamoli assieme questi attimi rubati, contiamoli, e il risultato sarà ragguardevole, forse, in molti casi spaventoso.
Perché anziché stare a sentire l’emozione di un tramonto crescere e serrarci il respiro, invece di cercare di capire dove risiede e da dove arriva quel brivido, scattiamo una foto e la mettiamo lì. Invece di sentire l’acquolina che sale in bocca, a tavola, prendiamo il piatto e lo mettiamo lì, lo mostriamo al mondo e al mondo diciamo: lo vedi? Non sono abbastanza bravo anch’io?
E ogni “mi piace” ci dà l’illusione di avere qualcuno seduto alla nostra tavola deserta, e a ogni commento di approvazione, è come se qualcuno bussasse alla porta di casa dove pare manchi sempre qualcosa.
Ma cos’è che ci manca veramente, qual è il vuoto e quanto è profondo per giustificare il continuo e ossessivo aggiornamento di stato?
Questa “ammucchiata partecipativa”, di cui parla il sociologo Geert Lovink che a dieci anni dal suo primo saggio lancia un secondo allarme con il libro “Ossessioni collettive”, quanto ci farà male?
Quanto siamo stretti, piegati e piagati, nell’affermazione di un “sé” che non è più deciso dal talento vero e proprio ma solo dall’incontro giusto e da un paio di retweet che ci danno l’illusione di cambiarci la vita?
Non mi va di levarmi su in alto ed elargire consigli o poetiche soluzioni, non posso, so di non avere l’autorevolezza né il carattere per farlo e anche perché, io per prima, ci sto dentro fino al collo. Semplicemente, sono alcune settimane che mi ripeto che così non va.
Credo di aver mancato troppi tramonti negli ultimi tre anni, troppe torte fatte in casa e corse, e sicuramente molto di più. E ho perso anche la nozione del tempo.
Facebook è stata la finestra da cui mostrare al mondo che valevo qualcosa.
In un momento in cui tutto crollava, la mia azienda, il matrimonio, il mio futuro, è stata un’illusione che mi ha aiutata, sì, ma mi ha anche fatto perdere lucidità e tempo.
FB ci dà solo la possibilità di provare con un clic di essere presenti, e di valere qualcosa in più, anche se la nostra vita così com’è ci soddisfa poco, perché poi, si sa che ciò che conta veramente non è l’approvazione di un post, ma continua a essere, e così sarà sempre, e giustamente, il riscontro effettivo, l’effetto reale delle nostre azioni sul vivere quotidiano.
FB non mi consente di dissentire, è una società virtuale tutta votata al positivo che ci costringe a essere compassionevoli per forza, comunque assai poco distante da twitter, dove migliaia di persone fanno a gara per scrivere qualcosa che sia più cool, più giusto, più divertente o più amaro degli altri.
Ma cosa cambia nelle nostre vite? Cosa ci sarà di diverso domani a parte qualche follower in più? Cosa sarà cambiato nel rapporto tra stato e cittadino.
Finora non mi pare che non abbiamo ribaltato il sistema né affossato lo strapotere delle banche. Questo, è un dato di fatto.
Fino ad oggi, a parte il consumo delle parole, anche le più belle e inusuali, e i Koan più complessi della tradizione zen ridotti a battute, mi pare che nulla sia cambiato.
È vero che il popolo del web organizza mobilitazioni, è vero che mostra solidarietà verso vittime innocenti e piange lacrime virtuali di fronte alle ingiustizie, ma succedeva anche prima e forse, l’effetto si consumava anche più lentamente.
Io confesso.
Sono stata presa nella rete, sono rimasta impigliata nelle maglie strettissime di questa falsa condivisione e al momento, mi pare anche che senza, il mondo rischierebbe di sparire all’improvviso ingoiato dai pixel.
Ma la verità, l’unica e tangibile, è che alla mia tavola siedono gli amici di sempre e che il mio blog riceve visite non da persone che cliccano “mi piace” ai miei post perché chi lo fa, compie atto di presenza, e basta. Come l’ospite invitato al vernissage che arriva imbellettato e solo per conoscere gente “che conta” e mangiare gratis al buffet. Chi condivide articoli senza nemmeno leggerli, non è troppo distante dal tizio che alla mia festa non vede l’ora di andarsene dopo aver bevuto cinque bicchieri di qualcosa ed essersi ingozzato di tartine.
Perché non siamo diventati più buoni, non siamo più impegnati socialmente, né più consapevoli.
La mia cultura e la mia consapevolezza vengono da lontano, da un mondo 0.0 e dalle ore che ho passato sui libri, e a teatro, e nei locali, ad ascoltare musica live. E anche quando siamo lì, oggi, tra la gente, nel mondo reale, mi domando perché continuiamo a sentirci in dovere di mettere al corrente il mondo su cosa facciamo, ciò che guardiamo, cosa mangiamo, chi vediamo.
È sempre un modo per affermarsi e mostrarsi, dimostrare a noi stessi, prima che agli altri, di essere ancora in vita.
Ci sentiamo vivi partecipando alle disgrazie altrui, ma sempre meno alle gioie e alle vittorie dell’altro, purtroppo, visto che questa realtà vive la frustrazione di un vero scollamento dal “friendly” cui siamo abituati on line, perché Zuk, ci ha dato l’illusione di poter giudicare chiunque e accedere ovunque quando poi, nella realtà, è sempre e solo la telefonata giusta che ci farà assumere da qualche parte o pubblicare da qualcuno.
Mi auguro soltanto, come ipotizza Lovink, che tra un po’ sarà molto poco cool controllare di continuo il proprio smartphone in pubblico.