E’ abbastanza sorprendete vedere il garante degli interessi del captale multinazionale entrare in un carcere per condannare le violenze commesse dagli agenti della polizia penitenziaria.
E’ sorprendente sentire improvvisamente voci autorevoli – un presidente del consiglio trovato non per strada, una ministra della giustizia con un prestigioso curriculum da costituzionalista – promettere riforme del sistema carcerario e un più ampio ricorso alle “pene alternative” al carcere.
Così sorprendente che i più ingenui potrebbero pensare ad una catarsi improvvisa del potere.
Per non cadere in questa defaillance basta però una parola: Modena.
Né l’uno né l’altra hanno fatto il benché minimo accenno alla strage perpetrata negli stessi giorni, e dallo stesso corpo di polizia, nel carcere emiliano subito dopo proteste esplose per lo stesso motivo che aveva agitato Santa Maria Capua Vetere (il contagio da Covid).
E ancor meno, naturalmente, all’episodio del tutto analogo avvenuto a Melfi – stessi giorni, stesso “corpo”, stessa ragione delle proteste – di cui pure i media hanno dato notizia.
Tra i tre episodi c’è una sola differenza: l’esistenza oppure no dei video registrati dai circuiti interni. Stiamo parlando di carcere, non di un casolare di campagna. Le telecamere, all’interno e all’esterno, sono infinite e attive 24 ore su 24. Se per Modena e Melfi non ci sono video vuol dire che sono stati cancellati, o neppure richiesti dalla magistratura inquirente.
Una “distruzione delle prove” – o un “rifiuto di acquisire prove” – che è a sua volta un reato facilmente perseguibile da qualsiasi procura (basta chiederli e, in caso di risposta negativa dell’amministrazione penitenziaria, iscrivere al registro degli indagati il direttore, il comandante delle guardi e gli agenti addetti alla conservazione dei video).
Se Draghi e Cartabia non ne hanno parlato c’è un motivo evanescente come una foglia di fico: l’autorità giudiziaria, per Modena e Melfi, o ha chiuso le indagini nel modo vergognoso che sappiamo (archiviazione) o queste sono ancora in corso.
Due punti fanno una linea, tre descrivono un cerchio. Dalla geometria alla vita reale, l’analogia tiene: se in (almeno) tre carceri c’è stata una “mattanza” contemporanea, vuol dire che c’è e c’era una “linea di condotta” politica, decisa o coperta dal ministero d’allora (guidato dall’incommentabile Alfonso Bonafede, che ogni avvocato si vergognerebbe a chiamare “collega”).
Nessuna “mela marcia”, insomma, ma un “cesto” creato per far marcire qualsiasi istanza umana e trasformare uomini in macchine da pestaggio, indifferenti.
In qualche misura, la dichiarazione draghiana di voler “riformare il sistema” è una presa d’atto indiretta di questa “scoperta”, con la chiara intenzione di sminuirne la rilevanza politica e strategica. Riducendo cioè al minimo le svolte necessarie.
Certamente un uso più ampio delle “misure alternative” può contribuire a ridurre anche di molto la popolazione rinchiusa in quei mattatoi (dove sono quasi sempre i “poveri cristi” a finire sotto i manganelli; perché anche lì dentro valgono i “rapporti di forza” e un boss non si tocca, se non altro per prudenza).
E certamente questa “svolta” governativa dovrebbe segnalare a procure e tribunali la necessità di avere un “senso della misura”, nell’erogazione e quantificazione delle condanne, che è andato smarrito da anni (basta guardare a cosa avviene anche ora contro il movimento No Tav).
Di fatto un sconfessione tardiva del forcaiolismo leghista e grillino, in questo mai diversi tra loro, fatto proprio da sempre anche da “democratici” e “sorelle d’italia”, con qualche distinguo berlusconiano basato su solidi fondamenti di classe (in carcere, non ci dovrebbero mai andare i ricchi; questa la sostanza del loro “garantismo”).
Ma questa “svolta progressista” sul terreno carcerario, che ha fatto rianimare anche tanti garantisti da tempo ridotti al silenzio, non nasce da resipiscenza o autocritica del potere.
Draghi stesso ha tenuto a ricordare che l’Italia
è stata condannata due volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
per il sovraffollamento carcerario, con tutto quel che ne deriva in
termini di attività tese al “recupero e al reinserimento sociale”. E se
si vogliono rispettare “i parametri economici europei” – su cui neanche
Lega e M5S si pongono ormai più problemi – allora bisogna obtorto collo rispettare anche quelli carcerari.
Ma se solo il sovraffollamento diventa il parametro da rispettare, è chiaro che si sceglie la via economicamente più semplice (non si costruiscono nuove carceri, ma si riduce il numero dei reati per cui è prevista la detenzione, tra cui – immaginiamo – ce ne sono molti di tipo “manageriale”).
Per quanto riguarda invece la “preparazione” e la “cultura” dominante tra le forze addette alla repressione fisica, nulla è emerso dai discorsi dei due governanti.
Fin
dai tempi dell'”emergenza” – quasi 40 anni fa – le guardie hanno
acquisito un potere di vita e di morte sui prigionieri, e lo hanno
esercitato quotidianamente senza mai finire sotto inchiesta per questo.
Toglier loro questa facoltà potrebbe comprometterne la fedeltà…
Il “cesto marcio” resta ancora una volta intoccabile, perché molto utile a chi comanda. E se il governo “omette” di ricordare la strage di Modena, l’indicazione implicita, ancorché indicibile, diventa: “la prossima volta non vi fate trovare con le registrazioni video in mano”.
E non c’è dubbio che tra le guardie questo “ragionamento” sia ora fortemente raccomandato…