No, non siamo in guerra contro il Covid, come dice il nuovo capo della Protezione civile, forse affascinato dalla divisa del generale Figliuolo. Si sarebbe sperato fosse stato molto più preoccupato del disastro della campagna vaccinale, una vera propria disfatta, di quelle che la storia bellica e patriottarda ci ha abituato a mistificare.
Infatti, quello della chiamata alle armi contro il virus è un arnese retorico vecchio e arrugginito, che poco serve ormai per mascherare l’inefficienza di un sistema sanitario fatto a pezzi dai tagli alla spesa pubblica, dal massacro dei diritti del lavoro di medici e operatori sanitari, compreso l’esproprio del diritto alla Salute dei cittadini per regalarlo ai privati.
Ormai il trucco che serviva a far passare per “martirio” la strage dei malati, per “eroismo” il lavoro massacrante degli operatori sanitari pubblici, – al solo scopo ignobile di assolvere preventivamente le responsabilità politiche di chi ha per decenni sistematicamente sbriciolato lo Stato sociale – si è scoperto: i presidenti delle regioni, la cui famigerata riforma del Titolo V ha affidato la gestione della Sanità, meriterebbero un posto in prima fila sul banco degli imputati, e non degli impuniti, dietro cui cercano di nascondersi, facendosi scudo di chiacchiere, di polemiche, di cialtronate.
Non che non ci siano i nemici. Che altri non sono che quelli che hanno corroso, fino quasi a sbriciolarli, i pilastri del welfare: il Covid, come uno tsunami, ha semplicemente preso in pieno quel restava ancora in piedi della Sanità, dell’Istruzione, della Previdenza sociale.
Dunque, non è la guerra contro il Covid, che anzi sta facendo fare affari d’oro ai Big Pharma, ai colossi del web e dell’e-commerce, e alle banche che gestiranno gli “aiuti” previsti dal Next generation Ue.
È invece la lotta di classe al contrario – provocata con pervicacia dal neoliberismo – che, diventata una vera e propria guerra sociale, ha infierito sul corpo sociale, già indebolito dall’ultima drammatica crisi economica, provocando strage di medici, paramedici e malati, nuova disoccupazione, soprattutto femminile, e maggiore immiserimento generalizzato.
Tanto che la politica ha reso la democrazia ombra di sé stessa, che la debolezza progettuale si pavoneggia come forza, che la cupidigia del consenso è il mero disinteresse della vita delle persone, che la fellonia dei governi viene innalzata come la virtù più alta.
Stiamo convivendo con la barbarie. Le cosiddette transizioni sono state definite, dal capo del governo provvisorio, “il gusto del futuro”.
Il futuro per chi?
La transizione energetica e quella digitale, la cosiddetta green economy e la sostenibilità – vocabolo che, per altro, ormai è entrato nel gergo della comunicazione commerciale, dunque è stato retrocesso al rango di puro aggettivo pubblicitario – sono destinate a diventare, ancora un volta, tappe forzate di quella “distruzione creativa” con cui il capitalismo sa rigenerare sé stesso. Ovviamente, coi soldi pubblici per nuovi e più gustosi profitti privati.
Il Nex generation Eu è un piano finanziato con i soldi delle tasse dei cittadini europei. Che in Italia vuol dire che chi paga le tasse finanzierà le attività economiche – al netto della cronica evasione fiscale – di chi le paga poco, come le multinazionali “atlantiche’, e anche, per esempio, come le aziende italiane che hanno spostato le sedi fiscali dove fa loro più comodo, ma che saranno comunque destinatarie dei finanziamenti e dei benefici fiscali.
È il massimo della vita: pago (poco), pretendo (tutto).
Insomma, se fosse vero che quella al Covid è una guerra, per politici ciarlatani e imprenditori ingordi varrebbe il detto “finché c’è guerra c’è speranza” – come titolava un famoso film italiano.
Ecco che sapore ha il “gusto del futuro”.