giovedì 21 gennaio 2021

Il governo Conte porta a casa la pelle

 

Che l’esito sarebbe stato la prosecuzione del governo di Giuseppe Conte era leggibile più nella perdita di sicumera dei suoi numerosi e trasversali detrattori che nella convinzione dei suoi alleati.

I 156 voti a favore dell’esecutivo in carica consentono di procedere anche se in mezzo a parecchie incertezze e rischi di incidenti di percorso. Ma per ora Conte ha portato a casa la pelle.

Su questo esito hanno pesato diversi fattori e non tutti guidati da nobili ideali. Da un lato la crescente ostilità a procedere in un salto nel buio facendo saltare “l’usato sicuro” in cambio di scenari tutto da costruire in un momento di emergenza totale per il paese.

Se poi sullo sfondo ci sono molte decine di miliardi da gestire nei prossimi mesi, si comprende che buttare la torta per terra ancora prima di dividerla, non era una ipotesi alla quale guardare con animosità.

Dall’altro i momenti come questi sono magici per peones e parlamentari senza identità definite, che possono mantenere il loro scranno ancora per molti mesi e contemporaneamente assumere la statura di “responsabili”.

Giuseppe Conte ha confermato così di essere veramente un “coniglio mannaro” (definizione coniata per un boss democristiano come Forlani, ma di straordinaria efficacia anche oggi). La sua replica finale al dibattito del Senato è iniziata volando basso sulla lista della spesa fatta e quella da fare.

Ma poi ha lasciato trapelare il patto di legislatura e il rinforzamento della squadra di governo (dove ci sono due posti da ministro e uno da sottosegretario da mettere a disposizione). Infine ha definito chiaramente l’europeismo e l’euroatlantismo come perimetro nel quale riconoscersi.

Definendo se stesso come “capitano di una squadra” e rivendicando onore e disciplina nel sedere sugli scranni istituzionali, Conte si è confermato un personaggio politico modesto nei modi e nei toni ma di estrema spregiudicatezza. In meno di due anni ha asfaltato ben due Matteo, un nome che ormai sta diventando un coefficiente della stupidità politica: l’improbabile e indecente Salvini e il fratello-coltello di mestiere Renzi.

Conte ha dunque portato a casa la pelle. Lo ha fatto con molte piroette – passando dall’europeismo critico a quello convinto, dalle relazioni speciali con gli Usa all’apertura alla Cina, dal testa a testa sul lockdown con la Confindustria alla cooptazione delle parti sociali nella gestione del Recovery Fund. Un modo di procedere articolato e fondato sulla moral suasion e mai di rottura, ma che ha portato Conte a disegnarsi addosso un vestito da uomo della provvidenza che in molti vorrebbero strappargli per infilarlo sulle spalle di personaggi come Draghi o Cottarelli.

Quando però si arriva alla resa dei conti (estate 2019 e inverno 2021),  il coniglio mannaro ha azzannato senza fare prigionieri e sostituendo gli alleati con nuovi compagni di ventura.

Decrittare il progetto politico di Conte, i suoi alleati strutturali, gli interessi prioritari che persegue non è ancora semplicissimo.

Per molti aspetti è un populista che quando serve si rivolge direttamente al popolo piuttosto che al circo della politica, che se ne impipa degli editoriali e dei commenti al vetriolo di una stampa ostile, cialtrona esattamente come la classe politica (la gran parte di entrambe le categorie).

Passata la strettoia della seconda crisi di governo del suo mandato, adesso si trova a gestire una immensa torta di finanziamenti con cui provare a ridisegnare poteri e interessi materiali nel paese.

I più ingenui sperano ancora nel trickle down (lo sgocciolamento in basso di qualche briciola), i più agguerriti a metterci le mani sopra. Ma sono proprio questi che dovranno trovare la mediazione con Giuseppe Conte e la sua corte di manager, giuristi, generali dei servizi segreti e cardinali.

Per la nostra gente – lavoratori, disoccupati, ceti medi impoveriti dalla recessione prima e dall’emergenza Covid poi – saranno mesi e anni senza paracadute se non quello della resistenza collettiva e del riconoscimento di interessi comuni da gettare nella mischia, senza illudersi su governi amici.

lunedì 11 gennaio 2021

La vittoria di Pirro dell’establishment

 

Molti “democratici”, e anche qualche debole mente della “compagneria”, hanno tirato un sospiro di sollievo vedendo tornare in sella l’establishment statunitense dopo la squinternata parentesi di Trump. La sortita estrema di questo pagliaccio e della sua orda, troppo stracciona per poter trionfare davvero, facilita del resto la sensazione di averla scampata bella…

Come cerchiamo di far notare, però, fin da quando quel truffatore è stato eletto, il problema sta nel capire com’è stato possibile che al vertice politico della superpotenza egemone sia potuto arrivare un catorcio del genere.

Non stiamo parlando dello sperduto comune marginale in cui un’oscura manovra semi-malavitosa ti sforna un sindaco inattendibile… Siamo nel cuore del potere politico dell’impero, cavolo!

Questa che dovrebbe essere una facile constatazione si perde, invece, nelle cronache e nei commenti sollevati; della serie “chissenefrega, andiamo avanti come prima e va bene così”.

La domanda inevitabile, posta persino da una non-povera come Jane Fonda, è però: “come si viveva prima è il problema che ci ha portati a questo punto”. Ossia: a chi andava bene prima e come si fa ad andare avanti così.

Ci fosse davanti una fase di crescita gloriosa della ricchezza, o anche una scoperta di quelle che cambia la società e la sua vita, si potrebbe forse fare. Ma purtroppo c’è una crisi da cui nessuno sa come uscire (da 13 anni!) e una pandemia fuori controllo soltanto qui, nell’Occidente cosiddetto “avanzato” (c’è un doppio o triplo senso, lo ammetto).

Come spiega ancora una volta Guido Salerno Aletta, in un editoriale per Teleborsa, “Il problema vero è che non si può tornare indietro: la crisi dell’America, che è quella dell’Occidente e delle democrazie rappresentative travolte dalla Globalizzazione, è inarrestabile.”

Tutte le manifestazioni dell’estrema destra in Occidente, malamente definite “sovranismo”, segnalano un gorgoglio dal fondo delle società occidentali provocato dal precipitare delle condizioni di vita. A partire dal “baricentro sociale” della stabilità politica in ogni paese dell’area: il ceto medio. O meglio, quella abnorme estensione del concetto che ha finito per includere anche i normali – numericamente in diminuzione – lavoratori dipendenti con contratto stabile e salario “normale”.

Sotto e sopra di questi c’è la precarietà galoppante, la disoccupazione cronica (gli “inattivi”, ormai stabilmente sopra i 100 milioni negli Usa) oppure la piccola e media impresa che non regge né la concorrenza né gli inevitabili lockdown.

La risposa data a questo malessere montante, ovunque in Occidente, è decisamente classista e sprezzante sul piano mediatico (“bifolchi”, “lumpen” o addirittura “proletari”, in un post attribuito a Giorgio Gori, che molti sperano fasullo). Mentre sul piano istituzionale è stato un semplice “torniamo alla normalità”.

Quella che, appunto, era “il problema”.

Alcune notizie forse possono aiutare l’analisi anche degli increduli. Joe Biden, è noto, sta formando la sua squadra di governo. Al di là degli scontati giochi di immagine (alcune donne e minoranze etniche per “dare la guazza” ai media e alla sinistra liberal), nei ruoli decisivi vengono messi personaggi come Micheal Pyle, indicato per l’incarico di capo economista del team della vice presidente Kamala Harris.

Pyle, ancora in queste ore, è responsabile delle strategie globali di investimento di Blackrock, il fondo di investimento più grande al mondo con asset gestiti per 7mila miliardi di dollari (4 volte il Pil italiano…) e partecipazioni in quasi tutte le multinazionali finanziarie o industriali del mondo. Un boss di primo piano della finanza globale.

Non basta. Come consigliere economico personale di Biden verrà preso Brian Deese, ex responsabile degli investimenti sostenibili della stessa Blacrock. Ci si può aspettare una “forte spinta” per una versione molto finance friendly della green economy; più chiacchiere e giochi speculativi che modifiche effettive al modello industriale. In fondo c’era già con Obama (un classico esempio delle “porte girevoli” esistenti tra affari privati e ruoli pubblici, a turno), e non è che abbia lasciato un segno diverso.

Una coincidenza, dirà qualcuno. Non proprio… Il ruolo più importante lo andrà a ricoprire Wally Adeyemo, ex responsabile dello staff di… Blackrock, che diventerà vice segretario al Tesoro, con una delega per i temi di regolamentazione finanziaria. Un vero fustigatore della speculazione, quasi un “comunista anti-ricchi”, non credete?

E anche la stessa Janet Yellen, prossima segretario al Tesoro, ex presidente della banca centrale Usa (la Federal Reserve), sembra molto popolare presso multinazionali e grandi banche (ha ricevuto in questi anni compensi dall’hedge fund Citadel, da Citibank, Ubs, Goldman Sachs, Barclays, Credit Suisse, Google…).

L’intenzione del vecchio establishment – che comprendeva anche tutti i repubblicani, prima di Trump, ma anche ora è lì ben rappresentato – è trasparente: “ricominciamooo” (Pappalardo style).

Dal loro punto di vista – quello del capitale finanziario multinazionale – la partita più interessante si gioca ad Oriente, non in casa. La scommessa su cui sono concentrati è la gestione del risparmio cinese – enorme, visto l’arricchimento rapido degli ultimi 30 anni – su cui vorrebbero mettere le mani.

Pechino ovviamente lo sa, e può giocare con quel miraggio come con l’esca sull’amo. Visto com’è andata finora, è escluso infatti che possano “regalare” senza contropartite qualcosa che può molto più efficacemente essere investito in economia reale.

La prospettiva Usa (ed europea), in tal senso, non ha grandi margini di manovra, visto il cul de sac in cui si è infilata con le proprie scelte.

Il dramma dell’America – segnala sempre Salerno Aletta – rimane sotto gli occhi di tutti: da una parte è deprivata dell’industria, si ingozza di merci importate, compete in agricoltura con i Paesi più poveri del mondo, accumula debiti immensi verso il resto del mondo; dall’altra, un pugno di multinazionali svettano con quotazioni stellari e distribuiscono sontuosi dividendi.

Con queste premesse non è difficile prevedere il prossimo futuro. “E’ come una pentola messa sul fuoco, a cui si mette sopra un coperchio: prima a poi scoppia.

Il che rimanda appunto all’impossibilità di tornare in modo indolore alla “globalizzazione”. Che ha avuto, tra gli altri, un effetto decisivo: la spinta a far convergere i salari del mondo verso una media. Bassa, ci mancherebbe…

Ovvio che chi stava ai piani alti di quella scala (dipendenti statunitensi ed europei) ha visto bloccate o ridotte le retribuzioni reali da 30 anni a questa parte. Mentre quelli dei Paesi emergenti, Cina in primis, li hanno visti crescere molto velocemente.

La media presenta ancora molte differenze e diseguaglianze, certo. Ma una nuova spinta nella stessa direzione non potrà che ripercuotersi sulla stabilità sociale e nell’odio vero “quelli che comandano la politica”.

La nostra debolezza, come comunisti, è evidente. Fossimo migliori, più scientifici e un po’ meno depressi, non ci sarebbero gli sciamani e i legaioli alla testa del nostro blocco sociale

martedì 5 gennaio 2021

Un caos di scuola

 

La ripresa in “presenza” per tutte le scuole (ma per le superiori solo al 50%) è a rischio. Il notevole rialzo dei contagi avvenuto nei giorni scorsi mette fortemente in dubbio che esistano le condizioni perché tale rientro possa avvenire.

Di fronte a una tale situazione, come al solito, l’Italia appare un paese frammentato, diviso in una quantità di poteri locali che fanno a gara per inventare soluzioni fantasiose se non, a volte, grottesche. Così, dopo la triste sceneggiata delle regioni “a colori” abbiamo quella di un’accozzaglia di decisioni diverse per regioni, provincie e persino comuni.

Raccapezzarsi tra le ipotesi che circolano sulla ripresa scolastica nelle diverse situazioni locali non è facile. La Campania propende per una riapertura scaglionata dal 7 sino al 25 gennaio, quando rientrerebbero le scuole superiori, mentre in Veneto Zaia non si sbilancia e dice che si “dovranno verificare le condizioni”.

La posizione più singolare è quella di Emiliano, presidente della Puglia, che sostanzialmente scarica tutte le responsabilità sui genitori, che decidano loro se i figli devono andare a scuola o restare a casa. In pratica, l’abdicazione a esercitare le funzioni di governo e di orientamento della popolazione che gli competerebbero.

Caos anche sui modelli orari: le entrate scaglionate e le “ore” di 45 minuti sono stati scelti da alcune regioni, ma, all’interno di queste, non da tutte le provincie e comuni, mentre resta un mistero come si potrà gestire l’orario del personale scolastico, già in numero insufficiente.

Quanto al monitoraggio e ai test rapidi per le scuole sembra trattarsi di iniziative, come temevamo, di difficile realizzazione e demandate ai Comuni, che probabilmente non potranno fare nulla, dato che il tracciamento dei contagi, con relativi test, è saltato da tempo.

Anche il potenziamento dei mezzi di trasporto pubblico è demandato agli enti locali, con una situazione, quindi, indecifrabile.

Esiste quindi il rischio concreto che le scuole superiori. e anche alcune classi delle medie, non possano riprendere “in presenza” il 7 gennaio e che molti siano posti di fronte all’alternativa, per nulla piacevole, tra salvaguardare la salute o andare a scuola.

Da più parti, si accusa il governo di aver “dimenticato” la scuola, di averne trascurato l’importanza e di averla “sacrificata”. In realtà questa accusa coglie solo una parte della realtà, poiché anche le attività culturali, ricreative, sociali e di partecipazione politica, le biblioteche, gli spettacoli, lo sport e tutto ciò che non fa parte della sfera strettamente “produttiva” (per intenderci, Confindustriale e del grande commercio) sono state egualmente sacrificate in nome dello slogan secondo cui la “nostra economia” non può permettersi altre chiusure.

Per sostenere questa scelta sciagurata è stata costruita l’ideologia del “convivere con il virus” che sta dimostrando quanto sia fallimentare e letteralmente mortifera: con il virus non si convive, si muore. Il virus si può solo contrastare, combattere e distruggere.

E’ quindi sbagliato pensare che si sia di fronte a una scarsa attenzione del governo alla scuola, è semplicemente che tutta la strategia del governo riguardo alla pandemia, subordinata agli interessi privati, è crollata miseramente e la scuola, ovviamente, è travolta dal crollo.

Siamo così di fronte, ora, a nuovi e gravi interrogativi, poiché una ripresa che non garantisca sicurezza non è possibile. Come anche non è possibile immaginare di trascinarsi sino a giugno alternando attività in presenza e a distanza. L’anno scolastico è già, in ogni caso, gravemente compromesso, a causa di enormi responsabilità che nessuno vuole ammettere; dando, come sarebbe il caso, le dimissioni.

In questa situazione, appare almeno ragionevole la richiesta formulata dall’OSA (Organizzazione Studentesca d’Alternativa) di sospendere le valutazioni di fine quadrimestre, che dovrebbero essere formulate a fine gennaio, su lezioni tenute a distanza in scrutini tenuti a distanza.

Che si abbia almeno la serietà di non ridurre la valutazione e gli scrutini a una farsa.