Che l’esito sarebbe stato la prosecuzione del governo di Giuseppe Conte era leggibile più nella perdita di sicumera dei suoi numerosi e trasversali detrattori che nella convinzione dei suoi alleati.
I 156 voti a favore dell’esecutivo in carica consentono di procedere anche se in mezzo a parecchie incertezze e rischi di incidenti di percorso. Ma per ora Conte ha portato a casa la pelle.
Su questo esito hanno pesato diversi fattori e non tutti guidati da nobili ideali. Da un lato la crescente ostilità a procedere in un salto nel buio facendo saltare “l’usato sicuro” in cambio di scenari tutto da costruire in un momento di emergenza totale per il paese.
Se poi sullo sfondo ci sono molte decine di miliardi da gestire nei prossimi mesi, si comprende che buttare la torta per terra ancora prima di dividerla, non era una ipotesi alla quale guardare con animosità.
Dall’altro i momenti come questi sono magici per peones e parlamentari senza identità definite, che possono mantenere il loro scranno ancora per molti mesi e contemporaneamente assumere la statura di “responsabili”.
Giuseppe Conte ha confermato così di essere veramente un “coniglio mannaro” (definizione coniata per un boss democristiano come Forlani, ma di straordinaria efficacia anche oggi). La sua replica finale al dibattito del Senato è iniziata volando basso sulla lista della spesa fatta e quella da fare.
Ma poi ha lasciato trapelare il patto di legislatura e il rinforzamento della squadra di governo (dove ci sono due posti da ministro e uno da sottosegretario da mettere a disposizione). Infine ha definito chiaramente l’europeismo e l’euroatlantismo come perimetro nel quale riconoscersi.
Definendo se stesso come “capitano di una squadra” e rivendicando onore e disciplina nel sedere sugli scranni istituzionali, Conte si è confermato un personaggio politico modesto nei modi e nei toni ma di estrema spregiudicatezza. In meno di due anni ha asfaltato ben due Matteo, un nome che ormai sta diventando un coefficiente della stupidità politica: l’improbabile e indecente Salvini e il fratello-coltello di mestiere Renzi.
Conte ha dunque portato a casa la pelle. Lo ha fatto con molte piroette – passando dall’europeismo critico a quello convinto, dalle relazioni speciali con gli Usa all’apertura alla Cina, dal testa a testa sul lockdown con la Confindustria alla cooptazione delle parti sociali nella gestione del Recovery Fund. Un modo di procedere articolato e fondato sulla moral suasion e mai di rottura, ma che ha portato Conte a disegnarsi addosso un vestito da uomo della provvidenza che in molti vorrebbero strappargli per infilarlo sulle spalle di personaggi come Draghi o Cottarelli.
Quando però si arriva alla resa dei conti (estate 2019 e inverno 2021), il coniglio mannaro ha azzannato senza fare prigionieri e sostituendo gli alleati con nuovi compagni di ventura.
Decrittare il progetto politico di Conte, i suoi alleati strutturali, gli interessi prioritari che persegue non è ancora semplicissimo.
Per molti aspetti è un populista che quando serve si rivolge direttamente al popolo piuttosto che al circo della politica, che se ne impipa degli editoriali e dei commenti al vetriolo di una stampa ostile, cialtrona esattamente come la classe politica (la gran parte di entrambe le categorie).
Passata la strettoia della seconda crisi di governo del suo mandato, adesso si trova a gestire una immensa torta di finanziamenti con cui provare a ridisegnare poteri e interessi materiali nel paese.
I più ingenui sperano ancora nel trickle down (lo sgocciolamento in basso di qualche briciola), i più agguerriti a metterci le mani sopra. Ma sono proprio questi che dovranno trovare la mediazione con Giuseppe Conte e la sua corte di manager, giuristi, generali dei servizi segreti e cardinali.
Per la nostra gente – lavoratori, disoccupati, ceti medi impoveriti dalla recessione prima e dall’emergenza Covid poi – saranno mesi e anni senza paracadute se non quello della resistenza collettiva e del riconoscimento di interessi comuni da gettare nella mischia, senza illudersi su governi amici.