lunedì 16 novembre 2020

L’Asia si accorda e volta le spalle agli Usa

 

Le cose cambiano molto velocemente, nel mondo. Ma chi sta ripiegato sulle beghe da cortile – soprattutto in Italia – non se ne accorge neppure.

La pandemia continua a correre, nonostante gli annunci sull’arrivo dei vaccini (i tempi variano con le aspettative commerciali o elettorali), e di sicuro il mondo che ci troveremo davanti alla fine non sarà lo stesso di prima.

La frase è stata pronunciata molte volte, non sempre – o quasi mai – accompagnata da una descrizione seria su che cosa sarà cambiato tra l’inizio (gennaio 2020) e la fine (ben che vada, l’autunno del 2021).

E allora proviamo mettere sul piatto una cosa certa: il peso economico degli Usa sarà molto minore, e così anche la loro capacità egemonica nel commercio mondiale.

Non è un auspicio, ma un fatto. Ieri notte quindici economie dell’Asia-Pacifico hanno formato il più grande patto di libero scambio del mondo. Rappresentano il 30% della popolazione e dell’economia globale. 2,2 milioni di produttori e consumatori, perché è ormai alle spalle il tempo dell’Asia – e in primo luogo la Cina – come continente di produttori a basso salario e scarsi consumi. E nel gruppo non ci sono gli Stati Uniti…

Il pivot del nuovo accordo – Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) – è naturalmente la Cina, stavolta strettamente collegata a Giappone e Corea del Sud, i due storici alleati locali dell’imperialismo Usa. Ma nel gruppo ci sono altri ex pilastri dell’egemonoa statunitense, come Australia e Nuova Zelanda.

L’India non ha firmato per timore di veder crescere, nel breve termine, il deficit commerciale con Pechino. Ma molti segnali indicano l’ingresso nel Rcep sarà questione di pochi anni, pandemia permettendo (o forse facilitando…).

Anche il luogo della firma mostra il sorriso beffardo dell’ironia della Storia: Hanoi, Vietnam del Nord, la più grande e significativa sconfitta statunitense del ‘900.

Per calcolare meglio il disastro economico-diplomatico, Trump aveva distrutto anche il Trans-Pacific Partnership (TPP), sottoscritto a suo tempo da Barack Obama, disegnato sul progetto esattamente opposto (confinare la Cina ai margini del “grande gioco” del Pacifico).

Di fatto, quella che (ancora per poco, forse) resta l’economia più grande del mondo è fuori da entrambe le intese commerciali che tengono insieme la regione in più rapida crescita della terra.

Molti dei punti del nuovo trattato non sono ancora noti nei dettagli. Si sa però che comprende 20 capitoli che vanno dal commercio di beni, investimenti e commercio elettronico alla proprietà intellettuale e agli appalti pubblici.

Ma il ministero delle finanze cinese ha tenuto a sottolineare che “lo spirito” è all’esatto opposto della “guerra dei dazi” promossa stupidamente da Donald Trump. «Per la prima volta, Cina e Giappone hanno raggiunto un accordo bilaterale di riduzione delle tariffe, raggiungendo una svolta storica».

Come notano tutti gli analisti internazionali, anche con la vittoria di Biden gli Usa non potranno “contrattaccare”, o almeno “controproporre”, in tempi brevi. Perché la disastrosa gestione della pandemia occuperà per forza di cose gran parte delle energie intellettuali, politiche ed economiche della nuova amministrazione.

Se questa, almeno, riuscirà a risolvere in modo accettabile la diversità di prospettive tra il centro dell’establishment (facile indovinare accordi sotterranei con i repubblicani “moderati”…) e la sinistra “socialista”. La quale ha un’agenda decisamente “radicale” per le abitudini statunitensi (qui in Europa sarebbe normale programma socialdemocratico, neanche troppo spinto), e difficilmente potrà accettare l’emarginazione e restare in silenzio.

That’s all, folks! E’ già un altro mondo, rispetto al 2019…

lunedì 2 novembre 2020

Prodi e il trasformismo della classe politica

 

Che il paese non sia sotto scacco di una dittatura sanitaria lo si capisce da un elemento fondamentale. Questa infatti prevederebbe un capo indiscusso e un obiettivo politico preciso.

Ma basta osservare con un minimo di attenzione la gragnuola di voci più disparate che si abbattono sulla gestione della fase pandemica in corso, su tutti gli ambiti possibili, per capire che non sia così.

La confusione circa il “da farsi” regna totale, con TotoDpcm domenicali manco fossero la nuova schedina e scontri giornalieri tra Stato, Regioni e Città metropolitane, perlopiù alla ricerca di un posto al sole per i soldi del “Recovery fund”, se mai arriveranno.

L’unica certezza invece emerge in quello che non si sta facendo e non si farà: contenere il virus, con buona pace della salute della popolazione e di conseguenza dei “risultati economici”, la cui bontà necessita – al minimo! – di lavoratori in salute. Altrimenti, chi produce?

In questo caos generato dall’indecenza della classe politica e dall’ingordigia di quella imprenditoriale, scorgere un lampo di luce chiarificatore non è semplice. Come se non bastasse, i più navigati approfittano della “notte in cui tutte le vacche sono nere” per rifarsi il trucco e apparire, dopo avere causato la malattia, con la ricetta salvifica.

Ultimo esempio in ordine di tempo è l’editoriale domenicale scritto da Romano Prodi sulle pagine de Il Messaggero.

Debbo confessare che, negli ormai lunghi anni nei quali mi sono dedicato a riflettere sullo stato dell’economia italiana, non mi sono mai trovato nella situazione di difficoltà e di incertezza in cui oggi mi trovo”.

Insomma, anche il “boiardo di Stato” per eccellenza sembra navigare a vista.

Il futuro dipenderà quindi dall’evoluzione della pandemia e dalla strategia di intervento dell’Europa e dei governi che, a differenza di quanto sarebbe avvenuto in passato in presenza di eventi simili, possono disporre di robuste risorse aggiuntive e di una ancora più robusta possibilità di indebitarsi”.

Il passaggio con cui l’Unione europea, e non “l’Europa”, che è un’altra cosa, ha improvvisamente deciso che i soldi ci sono viene lasciato sottotraccia, cercando di obliare anni di “ce lo chiede l’Europa” a colpi di tagli alla sanità, alla scuola, ai trasporti, alle infrastrutture e al reddito dei lavoratori, diretto come indiretto. Tuttavia, che di indebitamento si tratta non ci sono dubbi, con cui un giorno non molto lontano dovremo fare letteralmente i conti.

Diventa perciò necessario e urgente destinare tutte le possibili risorse aggiuntive agli investimenti dedicati a evitare la futura catastrofe della nostra economia e a preparare la ripresa, senza la quale non ci libereremo mai dal peso del debito pubblico.

Se i sussidi si rivelano insufficienti, gli investimenti sono del tutto latitanti. Parlo sia degli investimenti pubblici che di quelli privati. Dal punto di vista temporale mi rendo conto che gli investimenti privati possono partire solo in un quadro di maggiore certezza degli orizzonti economici, oggi molto confusi e destinati a cambiare radicalmente.

“(…) Imperdonabile è invece la perdurante inerzia degli investimenti pubblici nelle nuove e nelle vecchie infrastrutture necessarie per aumentare la nostra produttività”.

Il passaggio logico è il seguente: per tornare a crescere “ed evitare la futura catastrofe” bisogna investire (regola ferrea del modo di produzione capitalistico), ma visto che gli orizzonti in termini di guadagni non sono rosei, lo Stato deve tornare a fare la sua parte.

Detta dal più grande privatizzatore di imprese pubbliche della storia della Repubblica tutta, questa frase è l’emblema del trasformismo per la sopravvivenza e l’autoriproduzione della classe politica che uscirà con le spalle al muro dai risultati sociali ed economici degli ultimi trent’anni, di cui il Covid non è che la spinta finale.

Inoltre, l’obiettivo non celato è il solito aumento della produttività, che è una bella formula per dire che va diminuito il costo del lavoro per ogni merce prodotta, ossia o si riduce il salario, o il numero dei lavoratori.

Ma non è tutto, perché la ciliegina è sempre l’ultimo elemento di cui si compone la torta.

Nel nostro caso bisogna aggiungere un’importante osservazione aggiuntiva. Come è stato messo in rilievo in occasione della giornata del risparmio, più la crisi si aggrava più le nostre banche si riempiono dei denari delle imprese e dei cittadini che, incerti sul futuro, risparmiano tutto quello che possono e spendono il meno che possonoSe non utilizziamo queste enormi risorse per preparare il nostro futuro, non usciremo mai dalla crisi”.

Tradotto, se i correntisti trattengono l’equivalente del Pil al sicuro nei caveaux delle banche (in realtà, sempre più stringhe di numeri con poco equivalente nella realtà), sblocchiamo quei denari e ripartiamo. Che i soldi insomma ce li mettano i cittadini (quelli delle imprese che contano infatti sono da anni investiti allestero, di solito nel debito pubblico statunitense).

Eccola qua la proposta del più grande interprete della “sinistra” dell’ultimo trentennio, quella del “tutti uniti contro la destra” che tanto ricorda la bassezza del dibattito pubblico odierno nell’area piddina, al netto del cambio di spauracchio – da Berlusconi a Salvini, e domani magari alla Meloni.

Chi oggi pensa che i ricchi “se sono intelligenti un po’ di soldi se li fanno prendere”, non ha capito la visione del mondo a cui risponde il padronato nostrano, che è quella con sui si è arricchito.

Il lavoro, se non si può automatizzare, va economicamente e socialmente massacrato, nessuna reale cooperazione è possibile, la fine del “regime di Bretton Woods” ha dettato la linea, il calo del tasso dei profitti continua a segnare il passo.

La patrimoniale in questo quadro non è un’alternativa.

A meno che… a meno che non si riprendano realmente le strade del paese, avendo ben chiari chi sono i nemici. Non era così d’altronde che ce la conquistammo?