lunedì 21 dicembre 2020

Il lavoro c’è ma i lavoratori si scansano: la favoletta continua

 

È di qualche giorno fa un titolone di un rotocalco appartenente al gruppo GEDI e alla famiglia Agnelli che annunciava la presenza di, udite udite, ben 90 mila posti di lavoro disponibili che non attendono altro che essere riempiti.

La favoletta è ben nota, ma riteniamo utile raccontarla per chiarire qualche concetto e suggerire qualche linea interpretativa. Repetita iuvant: spendiamo allora qualche riga sulla propaganda che le testate, e spesso le ricerche accademiche, continuano a propinarci, per poi passare alle cose serie.

Il ritornello è ben noto, dicevamo: in Italia il lavoro non mancherebbe, tutt’altro! Purtroppo, però, i lavoratori non sono adeguatamente formati o, peggio, preferiscono “poltrire” godendo di qualche ‘generoso’ sussidio.

Le soluzioni individuate sarebbero, tanto per cambiare, politiche dell’offerta finalizzate alla formazione dei giovani alla manovalanza – invece che rincorrer i cavalieri, l’arme e gli amori – e investimenti in “politiche attive”, vale a dire in tutte quelle azioni volte a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, piuttosto che lo sperpero di risorse nei sussidi di disoccupazione, i quali non incentiverebbero i cittadini a cercare attivamente un lavoro, lasciando scoperte le “ghiotte opportunità che gli imprenditori italiani garantirebbero.

Sfatare la mendacia e l’opportunismo di queste posizioni è utile e si può fare da diverse prospettive. Innanzitutto, occorre ricordare che l’occupazione dipende imprescindibilmente dalla dinamica dell’economia: in una fase di stagnazione, in cui la domanda di beni e servizi arranca, il livello di produzione sarà minore, e il processo produttivo necessiterà di meno lavoratori.

Risultato? Maggiore disoccupazione, indipendentemente dalle caratteristiche dei lavoratori, come invece vogliono farci credere gli alfieri del neoliberismo.

Si potrebbe inoltre obiettare che la scelta di lavorare o meno possa essere legittimamente associata alla retribuzione che quella posizione garantisce. A tal proposito, in Italia l’andamento delle retribuzioni è stagnante da decenni, la quota salari sul reddito nazionale è in caduta libera e un fenomeno tremendo come quello dei working poor, lavoratori che percepiscono uno stipendio insufficiente a uscire dalla trappola della povertà, colpisce più del 12% degli occupati maggiorenni.

Legare dunque la percezione di un sussidio alla ricerca del lavoro, come avviene nel caso del Reddito di Cittadinanza, significa scaricare sul lavoratore l’onere di decidere quale sofferenza patire: le continue ingiurie dei padroni che li accusano di pigrizia, o un salario da fame.

Nel quadro attuale, infine, il mercato del lavoro pare aver introiettato una suddivisione dei ruoli per cui lo Stato mette mano al portafogli solo per la formazione dei lavoratori, mentre le aziende ne usufruiscono allo scopo di massimizzare i profitti, impiegandoli a loro piacimento.

Viene da chiedersi: perché non dovrebbero essere le stesse imprese a formare la propria manodopera? La risposta è piuttosto scontata: le aziende vogliono sottrarsi dall’onere di formare i lavoratori, un impegno che comporta un costo diretto relativo all’apprendimento, e un costo indiretto associato alla ‘minore produttività’ legata all’assumere un lavoratore alle prime armi rispetto ad un suo collega più esperto.

Eppure, il diritto del lavoratore alla formazione da parte delle imprese è stata una tra le lotte più importanti vinte nel Novecento, perché rappresenta – al pari dell’istruzione pubblica – uno strumento di mobilità sociale, ossia un modo per cui le classi sociali più svantaggiate possano ambire a carriere professionali altrimenti proibitive.

Scaricare sullo Stato i costi di formazione consente esclusivamente di gonfiare i profitti privati, a scapito della collettività.

Al di là degli aspetti, pur importanti, legati alla formazione, vogliamo in questa occasione soffermarci in particolare sui ‘posti vacanti’ evocati nell’articolo menzionato in apertura. Tale esercizio ci permetterà di sottolineare come lo stesso entusiasmo nello sparare numeri di volta in volta più paradossali sia infondato.

Con il termine posti vacanti si intendono quelle posizioni lavorative per cui il datore cerca attivamente un candidato che le soddisfi. La misura che invece ci aiuta meglio a capire l’attuale situazione è il tasso di posti vacanti, misurato come il rapporto tra il numero di posti vacanti e il totale dei posti di lavoro offerti (quest’ultimo, dato dalla somma tra posti occupati e posti vacanti).

A seconda che si guardi il livello o la dinamica di queste variabili si avranno indicazioni sulla condizione del mercato del lavoro o sulle relative prospettive.

Considerando tutte le imprese con almeno 1 dipendente, secondo i dati Istat, il numero di posti vacanti nell’industria e nei servizi è pari circa a 200 mila posizioni nel terzo trimestre del 2020. Una goccia nel mare dei 2 milioni e mezzo di disoccupati che nessuna politica attiva potrà mai svuotare.

Decantare la presenza di 90 mila posti di lavoro non serve a far altro che alimentare quella becera retorica che vuole scaricare sui lavoratori la colpa della disoccupazione. Una bugia dalle gambe corte.

Assumere come feticcio il numero dei posti vacanti dà un quadro quantomeno parziale, soprattutto se viene fatto con la malafede dei giornali padronali. Se questi dati fossero osservati senza tanta disonestà intellettuale, emergerebbe un altro quadro.

L’andamento nel tempo del tasso di posti vacanti, in particolare, è un dato rilevante per comprendere come siamo arrivati fin qui e dove stiamo andando: lungi dal descrivere l’incapacità dei padroni di trovare lavoratori motivati, tale dinamica rappresenta proprio le aspettative delle imprese rispetto all’andamento dell’economia.

Con prospettive di crescita economica, avremo un tasso di posti vacanti crescente perché saranno proprio queste previsioni ad alimentare la domanda di lavoro da parte dei datori. Se, viceversa, i posti vacanti diminuiscono, ciò significa che le aziende non sono interessate ad assumere, dato che vedono ridimensionarsi le possibilità di profitto non avendo nessuno a cui vendere le proprie merci o servizi.

Ecco quindi che quello che generalmente si osserva in corrispondenza di una diminuzione del tasso di posti vacanti è una fase di crisi, in cui il lavoro non c’è perché la domanda aggregata è stagnante, e non una fase di grandi opportunità a cui il lavoratore non è interessato.

I dati sull’Italia, da questo punto di vista, sono impietosi: il tasso di posti vacanti, sia per le imprese con almeno un dipendente che per quelle con almeno dieci dipendenti, è stagnante dal 2018. Lo scoppio della pandemia e la drammatica situazione economica che ne è conseguita hanno provocato un dimezzamento del tasso di posti vacanti, che ha ripreso a crescere nel secondo trimestre del 2020, ma che non ha tutt’ora raggiunto i livelli di fine 2019.

Anzi, il dato sta segnando, nonostante in riferimento al terzo trimestre non sia ancora consolidato, un ulteriore rallentamento. È il quadro di un’economia affossata dalla carenza di domanda interna che azzoppa la domanda di lavoro.

Viste da questa prospettiva, queste giornalate e molte altre assumono tratti grotteschi: un viscido tentativo, da parte dei padroni, di raschiare il fondo del barile dello sfruttamento, facendo ricadere sul lavoratore la responsabilità del suo mancato impiego in quanto non all’altezza di ciò che l’imprenditore richiede.

Le responsabilità della disoccupazione che ormai strutturalmente caratterizza l’Italia ricadono sulle spalle di chi ha avallato precise scelte di politica economica che riflettono i rapporti di forza tra lavoro e capitale. Rapporti, purtroppo, ai minimi storici da decenni.

Uno strapotere, quello della classe imprenditoriale, che si traduce in un modello di crescita trainato dalle esportazioni, nella compressione dei salari e nel crescente sfruttamento. E, di conseguenza, in quel mare magnum della disoccupazione a due cifre in cui la classe padronale sguazza, figlio di anni di politiche di austerità fiscale: un contesto, previsto e dovuto all’assetto istituzionale europeo, che rende impossibili quelle politiche di stimolo alla domanda aggregata necessarie a raggiungere quella piena occupazione che invece spaventa i padroni.

lunedì 16 novembre 2020

L’Asia si accorda e volta le spalle agli Usa

 

Le cose cambiano molto velocemente, nel mondo. Ma chi sta ripiegato sulle beghe da cortile – soprattutto in Italia – non se ne accorge neppure.

La pandemia continua a correre, nonostante gli annunci sull’arrivo dei vaccini (i tempi variano con le aspettative commerciali o elettorali), e di sicuro il mondo che ci troveremo davanti alla fine non sarà lo stesso di prima.

La frase è stata pronunciata molte volte, non sempre – o quasi mai – accompagnata da una descrizione seria su che cosa sarà cambiato tra l’inizio (gennaio 2020) e la fine (ben che vada, l’autunno del 2021).

E allora proviamo mettere sul piatto una cosa certa: il peso economico degli Usa sarà molto minore, e così anche la loro capacità egemonica nel commercio mondiale.

Non è un auspicio, ma un fatto. Ieri notte quindici economie dell’Asia-Pacifico hanno formato il più grande patto di libero scambio del mondo. Rappresentano il 30% della popolazione e dell’economia globale. 2,2 milioni di produttori e consumatori, perché è ormai alle spalle il tempo dell’Asia – e in primo luogo la Cina – come continente di produttori a basso salario e scarsi consumi. E nel gruppo non ci sono gli Stati Uniti…

Il pivot del nuovo accordo – Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) – è naturalmente la Cina, stavolta strettamente collegata a Giappone e Corea del Sud, i due storici alleati locali dell’imperialismo Usa. Ma nel gruppo ci sono altri ex pilastri dell’egemonoa statunitense, come Australia e Nuova Zelanda.

L’India non ha firmato per timore di veder crescere, nel breve termine, il deficit commerciale con Pechino. Ma molti segnali indicano l’ingresso nel Rcep sarà questione di pochi anni, pandemia permettendo (o forse facilitando…).

Anche il luogo della firma mostra il sorriso beffardo dell’ironia della Storia: Hanoi, Vietnam del Nord, la più grande e significativa sconfitta statunitense del ‘900.

Per calcolare meglio il disastro economico-diplomatico, Trump aveva distrutto anche il Trans-Pacific Partnership (TPP), sottoscritto a suo tempo da Barack Obama, disegnato sul progetto esattamente opposto (confinare la Cina ai margini del “grande gioco” del Pacifico).

Di fatto, quella che (ancora per poco, forse) resta l’economia più grande del mondo è fuori da entrambe le intese commerciali che tengono insieme la regione in più rapida crescita della terra.

Molti dei punti del nuovo trattato non sono ancora noti nei dettagli. Si sa però che comprende 20 capitoli che vanno dal commercio di beni, investimenti e commercio elettronico alla proprietà intellettuale e agli appalti pubblici.

Ma il ministero delle finanze cinese ha tenuto a sottolineare che “lo spirito” è all’esatto opposto della “guerra dei dazi” promossa stupidamente da Donald Trump. «Per la prima volta, Cina e Giappone hanno raggiunto un accordo bilaterale di riduzione delle tariffe, raggiungendo una svolta storica».

Come notano tutti gli analisti internazionali, anche con la vittoria di Biden gli Usa non potranno “contrattaccare”, o almeno “controproporre”, in tempi brevi. Perché la disastrosa gestione della pandemia occuperà per forza di cose gran parte delle energie intellettuali, politiche ed economiche della nuova amministrazione.

Se questa, almeno, riuscirà a risolvere in modo accettabile la diversità di prospettive tra il centro dell’establishment (facile indovinare accordi sotterranei con i repubblicani “moderati”…) e la sinistra “socialista”. La quale ha un’agenda decisamente “radicale” per le abitudini statunitensi (qui in Europa sarebbe normale programma socialdemocratico, neanche troppo spinto), e difficilmente potrà accettare l’emarginazione e restare in silenzio.

That’s all, folks! E’ già un altro mondo, rispetto al 2019…

lunedì 2 novembre 2020

Prodi e il trasformismo della classe politica

 

Che il paese non sia sotto scacco di una dittatura sanitaria lo si capisce da un elemento fondamentale. Questa infatti prevederebbe un capo indiscusso e un obiettivo politico preciso.

Ma basta osservare con un minimo di attenzione la gragnuola di voci più disparate che si abbattono sulla gestione della fase pandemica in corso, su tutti gli ambiti possibili, per capire che non sia così.

La confusione circa il “da farsi” regna totale, con TotoDpcm domenicali manco fossero la nuova schedina e scontri giornalieri tra Stato, Regioni e Città metropolitane, perlopiù alla ricerca di un posto al sole per i soldi del “Recovery fund”, se mai arriveranno.

L’unica certezza invece emerge in quello che non si sta facendo e non si farà: contenere il virus, con buona pace della salute della popolazione e di conseguenza dei “risultati economici”, la cui bontà necessita – al minimo! – di lavoratori in salute. Altrimenti, chi produce?

In questo caos generato dall’indecenza della classe politica e dall’ingordigia di quella imprenditoriale, scorgere un lampo di luce chiarificatore non è semplice. Come se non bastasse, i più navigati approfittano della “notte in cui tutte le vacche sono nere” per rifarsi il trucco e apparire, dopo avere causato la malattia, con la ricetta salvifica.

Ultimo esempio in ordine di tempo è l’editoriale domenicale scritto da Romano Prodi sulle pagine de Il Messaggero.

Debbo confessare che, negli ormai lunghi anni nei quali mi sono dedicato a riflettere sullo stato dell’economia italiana, non mi sono mai trovato nella situazione di difficoltà e di incertezza in cui oggi mi trovo”.

Insomma, anche il “boiardo di Stato” per eccellenza sembra navigare a vista.

Il futuro dipenderà quindi dall’evoluzione della pandemia e dalla strategia di intervento dell’Europa e dei governi che, a differenza di quanto sarebbe avvenuto in passato in presenza di eventi simili, possono disporre di robuste risorse aggiuntive e di una ancora più robusta possibilità di indebitarsi”.

Il passaggio con cui l’Unione europea, e non “l’Europa”, che è un’altra cosa, ha improvvisamente deciso che i soldi ci sono viene lasciato sottotraccia, cercando di obliare anni di “ce lo chiede l’Europa” a colpi di tagli alla sanità, alla scuola, ai trasporti, alle infrastrutture e al reddito dei lavoratori, diretto come indiretto. Tuttavia, che di indebitamento si tratta non ci sono dubbi, con cui un giorno non molto lontano dovremo fare letteralmente i conti.

Diventa perciò necessario e urgente destinare tutte le possibili risorse aggiuntive agli investimenti dedicati a evitare la futura catastrofe della nostra economia e a preparare la ripresa, senza la quale non ci libereremo mai dal peso del debito pubblico.

Se i sussidi si rivelano insufficienti, gli investimenti sono del tutto latitanti. Parlo sia degli investimenti pubblici che di quelli privati. Dal punto di vista temporale mi rendo conto che gli investimenti privati possono partire solo in un quadro di maggiore certezza degli orizzonti economici, oggi molto confusi e destinati a cambiare radicalmente.

“(…) Imperdonabile è invece la perdurante inerzia degli investimenti pubblici nelle nuove e nelle vecchie infrastrutture necessarie per aumentare la nostra produttività”.

Il passaggio logico è il seguente: per tornare a crescere “ed evitare la futura catastrofe” bisogna investire (regola ferrea del modo di produzione capitalistico), ma visto che gli orizzonti in termini di guadagni non sono rosei, lo Stato deve tornare a fare la sua parte.

Detta dal più grande privatizzatore di imprese pubbliche della storia della Repubblica tutta, questa frase è l’emblema del trasformismo per la sopravvivenza e l’autoriproduzione della classe politica che uscirà con le spalle al muro dai risultati sociali ed economici degli ultimi trent’anni, di cui il Covid non è che la spinta finale.

Inoltre, l’obiettivo non celato è il solito aumento della produttività, che è una bella formula per dire che va diminuito il costo del lavoro per ogni merce prodotta, ossia o si riduce il salario, o il numero dei lavoratori.

Ma non è tutto, perché la ciliegina è sempre l’ultimo elemento di cui si compone la torta.

Nel nostro caso bisogna aggiungere un’importante osservazione aggiuntiva. Come è stato messo in rilievo in occasione della giornata del risparmio, più la crisi si aggrava più le nostre banche si riempiono dei denari delle imprese e dei cittadini che, incerti sul futuro, risparmiano tutto quello che possono e spendono il meno che possonoSe non utilizziamo queste enormi risorse per preparare il nostro futuro, non usciremo mai dalla crisi”.

Tradotto, se i correntisti trattengono l’equivalente del Pil al sicuro nei caveaux delle banche (in realtà, sempre più stringhe di numeri con poco equivalente nella realtà), sblocchiamo quei denari e ripartiamo. Che i soldi insomma ce li mettano i cittadini (quelli delle imprese che contano infatti sono da anni investiti allestero, di solito nel debito pubblico statunitense).

Eccola qua la proposta del più grande interprete della “sinistra” dell’ultimo trentennio, quella del “tutti uniti contro la destra” che tanto ricorda la bassezza del dibattito pubblico odierno nell’area piddina, al netto del cambio di spauracchio – da Berlusconi a Salvini, e domani magari alla Meloni.

Chi oggi pensa che i ricchi “se sono intelligenti un po’ di soldi se li fanno prendere”, non ha capito la visione del mondo a cui risponde il padronato nostrano, che è quella con sui si è arricchito.

Il lavoro, se non si può automatizzare, va economicamente e socialmente massacrato, nessuna reale cooperazione è possibile, la fine del “regime di Bretton Woods” ha dettato la linea, il calo del tasso dei profitti continua a segnare il passo.

La patrimoniale in questo quadro non è un’alternativa.

A meno che… a meno che non si riprendano realmente le strade del paese, avendo ben chiari chi sono i nemici. Non era così d’altronde che ce la conquistammo?

mercoledì 28 ottobre 2020

L’autunno del nostro scontento

 

In moltissime città italiane ci sono state ieri manifestazioni di protesta. In alcuni casi ci sono stati tafferugli, cariche di polizia, lancio di petardi e persino qualche molotov. La composizione sociale di queste manifestazioni è decisamente eterogenea, così come quella politica (in alcuni casi sono state iniziative dei fascisti, ma in quantità di fatto irrilevante).

Insomma, è finita la pace sociale, è cominciato l’autunno del nostro scontento…

A guidare la protesta soprattutto le categorie colpite direttamente dai decreti del governo e dalle delibere regionali (o comunali), e quindi, ristoratori, titolari di bar, palestre, lavoratori dello spettacolo in genere. Spesso con la compresenza di “padroncini” e dipendenti, e questo non può stupire. Nelle piccole imprese di questi settori i titolari lavorano quasi sempre a fianco dei dipendenti, non disponendo dell’organizzazione del lavoro e della scala dimensionale per starsene a casa ad amministrare l’impresa.

Poi, come sempre, ci sono avventurieri e avventurosi, disperati pronti a saccheggiare un negozio di marca (è successo a Torino, contro le vetrine di Gucci) per rivendere poi sul mercato nero; gente delle curve che cerca un’occasione di rivincita con la polizia, addetti abituali all’”economia informale” (non solo al Sud, ma in tutte le periferie metropolitane) ecc.

Una prima notazione: la giornata di lunedì ha spazzato via tutte le cazzate mediatiche sulla “camorra” alla guida delle proteste di Napoli. E dire che stavolta neanche Roberto Saviano, decano dei portavoce di questura, ci era cascato…

Non è “la rivoluzione”, chiaramente, ma una crepa consistente che si va aprendo all’interno del blocco sociale dominante, strutturalmente coeso intorno a pochi grandi gruppi industriali e finanziari, ma con una larghissima compartecipazione di media e piccola borghesia fidelizzata con molte “libertà” a lei concesse (evasione fiscale e contributiva, contratti di lavoro precari o nessun contratto, nessun controllo di sicurezza sul lavoro, ecc).

Ora gli interessi cominciano a divergere. Le grandi imprese ottengono sempre quel che chiedono (nessun blocco della produzione, incentivi, defiscalizzazioni, cassa integrazione anche senza averne diritto, contratti bloccati, licenziamenti liberi da qui a poche settimane, ecc), mentre le piccole imprese del commercio e del turismo vanno sull’orlo del fallimento. In prospettiva anche oltre…

Del resto, un governo imbelle con i più forti, ma “bisognoso” di far vedere che fa qualcosa, oltre che di far capire quanto disastrosa sia la situazione sanitaria, non può che buttarsi sulle attività più “visibili”. In generale quelle del tempo libero…

Chiarissima anche l’origine di questa crepa: le misure decise dal governo e dalle singole regioni sono di fatto inutili al fine di combattere la pandemia. La loro incidenza sul numero dei contagi, anche quando coscienziosamente applicate, è marginale. E lo verificheremo tra quindici giorni, a consuntivo.

Com’è noto, noi siamo favorevoli fin dall’inizio al “metodo cinese”: lockdown severi ma mirati a singoli focolai, tamponi di massa su tutta la popolazione interessata, in modo da identificare i contagiati (anche e soprattutto gli asintomatici) e permettere al resto di continuare a vivere, lavorare, divertirsi.

Questo metodo, ormai è ammesso anche da grandi manager-economisti statunitensi, funziona meglio anche per la salvaguardia dell’economia; mentre il laissez-faire e “contagiatevi pure” provoca stragi di massa e tracrollo economico.

Tutti i governi occidentali, invece, hanno scelto di privilegiare il Pil rispetto alla salute, ottenendo il risultato opposto (non era difficile prevederlo…).

Ora, alla “seconda ondata”, la cosa diventa evidente a tutti. La “prima ondata”, complice anche la novità e la sorpresa, aveva stimolato obbedienza e passività di massa; tutti chiusi, magari a cantare dai balconi, e massima fiducia nel governo.

Alla seconda il gioco non regge più. Per motivi economici e di reddito, perché – oltretutto – il governo ha disposto le chiusure senza preventivamente rassicurare sui “ristori” per le categorie colpite. I governi nazionale e regionali, persino quelli appena eletti con percentuali bulgare, non hanno più credibilità. Comunque ne hanno persa a valanga davanti al montare esponenziale dei bollettini giornalieri sull’andamento del contagio.

Questo incrocio – verifica dell’inutilità delle misure decretate e crollo dei redditi in molte categorie sociali – apre le porte a tutte le follie (“libertà di lavorare in qualsiasi condizione”, “no alla dittatura sanitaria”, ecc), sicuramente pericolose perché irrazionali, della serie “speriamo che io me la cavo” e che tocchi a qualcun altro…

Qui si gioca però la partita a livello di massa. Senza un intervento conflittuale diretto, politico e sindacale, l’”egemonia” del malessere sociale finirebbe fatalmente nelle mani peggiori. Dunque va eliminata in radice qualsiasi tentazione di chiudersi nel guscio aspettare che “passi la nottata”.

Anche perché, nonostante i nuovi disoccupati siano quasi un milione, ancora non si è avuta l’ondata di licenziamenti pretesa dalla Confindustria di Carlo Bonomi. Dunque mancano all’appello delle mobilitazioni fasce sociali di grandi dimensioni e ben più tradizionali nella cultura politica comunista.

Nei tempi eccezionali, quelli che segnano una crisi e la conseguente necessità di un cambio di sistema, i movimenti di piazza non si presentano del resto mai in forma pura. Non ci possiamo insomma attendere il classico movimento operaio, bandiere rosse al vento, unità di classe già data e consolidata…

Quel mondo è stato distrutto nel corso degli ultimi 40 anni (dalla “marcia dei quarantamila” a oggi), la ricostruzione di un blocco sociale per il “passaggio di sistema” è tutta da iniziare.

Ma “il grande freddo” della passività di massa si sta rompendo. Il blocco dominante comincia a sfarinarsi. Le giustificazioni sempre addotte – ancora adesso! – sulla presunta superiorità del modello neoliberista stanno diventando in-credibili.

Occhi aperti, naso al vento, capacità di distinguere tra contorcimenti reazionari e slanci di liberazione, fantasia e flessibilità estrema nelle pratiche, una chiara visione sullo stato del mondo in questa crisi. Sono solo alcune delle “virtù” che sarebbe bene possedere e sviluppare in questo frangente.

martedì 20 ottobre 2020

Il governo della fuffa, chiuso nell’angolo

 

Giorni di riunioni, indiscrezioni fatte filtrare ai media per sondare le reazioni, esitazioni. Per combattere l’aumento dei contagi sembrava si fosse vicino a soluzioni drastiche, o perlomeno di grandi dimensioni e significato.

E invece niente o quasi, fumo a manovella. Ma con un orientamento chiaro, classista, produttivista e soprattutto ipocrita in misura intollerabile. In definitiva: suicida.

Giuseppe Conte si è confermato un galleggiante, privo di un qualunque punto di vista, non tanto “personale” quanto all’altezza della sfida che abbiamo tutti e purtroppo davanti.

Se guardiamo le “misure” illustrate nell’ennesimo Dpcm, la prima parola che balza agli occhi è l’inutilità. DPCM 18 ottobre 2020

Virologi ed epidemiologi, fin dall’inizio, insistono nello spiegare che il virus si diffonde negli assembramenti di persone, soprattutto nei luoghi chiusi e poco arieggiati. Il Dpcm permette alcuni assembramenti e ne vieta, o “sconsiglia” altri. Dunque non serve a un tubo. Al massimo può limare di qualche unità la curva di crescita, non certo arrestarla.

Ma è l’analisi degli assembramenti permessi o vietati a segnare l’impronta ideologica e di classe di questo governo impotente al servizio dei potenti.

Non si menzionano affatto i luoghi di lavoro come potenziali focolai di infezione, nonostante le centinaia di casi segnalati in questi mesi (soprattutto nei nei macelli e negli stabilimenti di trattamento delle carni, oltre che nella logistica). Indirettamente, si ammette che potrebbero essere un problema e infatti si “consiglia” e incentiva lo smart working. Che però, come sappiamo tutti, è possibile solo per le mansioni impiegatizie. E neanche tutte…

Tutte le lavorazioni fisiche vanno infatti necessariamente eseguite, come si dice, “in presenza”.

L’ipocrisia classista emerge anche quando si affronta il tema delle “attività sportive”. Vengono di fatto vietate tutte le attività dilettantistiche e amatoriali, mentre restano consentite quelle professionali, sia per gli “sport di contatto” che per tutti gli altri.

In pratica, il governo tutela lo sport come spettacolo da guardare, preferibilmente a pagamento (restano intatti i limiti di accesso negli stadi a 1.000 persone e 200 negli ambienti chiusi); mentre boccia quello “partecipativo”, che facilita un maggior grado di benessere sociale.

Non solo. Cede anche i propri poteri di coordinamento in materia sanitaria, lì dove permette che i “protocolli emanati dalle Federazioni Sportive nazionali” facciano testo a dispetto dei protocolli stabiliti dal ministero della salute. Insomma: decide la Federcalcio et similia

Ma in generale la logica che muove questo esecutivo – così come gli altri in tutto l’Occidente – è quella di limitare il “tempo libero” e facilitare al massimo quello da passare al lavoro. Secondo il vecchio detto: produci, consuma, crepa.

Va in questo senso il sostanziale “coprifuoco” a partire dalle ore 21 (come nella Francia di Macron) per “strade e piazze nei centri urbani [….] dove si possono creare situazioni di assembramento”. Sono ovviamente vietate “le sagre e le fiere di comunità”, mentre restano consentite “le manifestazioni fieristiche di carattere nazionale e internazionale”, ossia quelle dove si fa business “vero” e pesante.

Esplicita è l’intenzione di impedire di preferenza le manifestazioni e le riunioni politiche di ogni tipo, a partire da “le attività convegnistiche o congressuali, ad eccezioni di quelle che si svolgono con modalità a distanza”. Di fatto, anche se si dovessero rispettare tutte le misure di distanziamento e protezione, non ci si potrebbe riunire “in presenza”. Ognuno, secondo questo governo, dovrebbe restare isolato a casa sua e senza possibilità di incidere politicamente sul corso delle cose…

Il lungo capitolo riservato alla scuola è indicativo della nullità politica – ossia dell’incapacità di assumersi una responsabilità seria. In pratica, si dice che le scuole e le università “dovrebbero” restare aperte, ma debbono prevedere forme di didattica a distanza. In ogni caso la decisione vie delegata ai singoli territori; alle Regioni, ma anche ai Comuni, in modo che qualsiasi decisione contestata a livello locale non possa essere ricondotta a una specifica decisione del governo.

Cervellotico – è il meno che si possa dire – la regolamentazione degli esercizi commerciali tipo ristorazione, bar, ecc. Possono restare aperti “fino alle 24” se fanno servizio al tavolo (max 6 persone per tavolo), in luoghi presumibilmente chiusi per motivi stagionali. Ma devono chiudere alle 18 se fanno solo servizio al banco… Gli altri dettagli sono ancora più arzigogolati e privi di senso (rispetto all’obbiettivo di contenere la pandemia).

Anche qui, come per la scuola, ogni decisione finale – potenzialmente impopolare, vista l’assenza di una logica coerente – viene scaricata sui poteri locali. Sollevando peraltro l’immediata protesta di quelli più deboli, ossia I Comuni.

A noi – ha spiegato Decaro, presidente dell’Anci (l’associazione dei Comuni, ndr) e sindaco di Bari – è sembrato uno scaricabarile: ci assumiamo la responsabilità, ma non si possono fare riunioni in cui non viene detto niente e poi il governo, che evidentemente non ha la forza per imporre un coprifuoco, fa un finto coprifuoco e dice che adesso decidono i sindaci quali sono le aree e le piazze. E chi controllerà? A noi è sembrato un modo per spostare la responsabilità agli occhi dell’opinione pubblica sui sindaci”.

Ma è soprattutto sui mezzi di trasporto pubblico che si nota l’indifferenza dell’esecutivo nei confronti della contagiosità: non una parola. Dunque resta tutto com’è, con il “permesso” di intasare bus, metro e treni regionali “fino all’80%” della capienza, ma senza alcun possibile controllo per far rispettare questa già assurda percentuale.

Il ridicolo è stato però infinitamente superato dalla ministra apposita – De Micheli – arrivata a sostenere, in un’intervista con Lucia Annunziata, che “in base a studi internazionali” i trasporti pieni “non sono fattore di contagio”. Che virus fantasioso, se ci incontriamo al bar fa un balzo, se stiamo sull’autobus dorme…

Tutte queste critiche, ripetiamo, partono dalla constatazione dell’inutilità di questo Dpcm rispetto all’obbiettivo di arrestare la diffusione del contagio. Per farlo, abbiamo scritto spesso, bisognerebbe avviare una massiccia campagna di tamponi su tutta la popolazione e in un breve lasso di tempo, in modo da identificare i contagiati (a cominciare dagli asintomatici, che non avvertono nessuna necessità di farsi controllare). Così come si è fatto, per esempio, a Qingbao o, qui da noi, a Vò Euganeo, all’inizio dell’epidemia.

Ma sappiamo anche che per farlo occorre una sanità pubblica in condizioni radicalmente diverse da quella dissanguata da 30 anni di tagli di spesa e mancate assunzioni.

Le politiche neoliberiste si scontrano dunque praticamente con la realtà dei fatti: con quelle politiche è impossibile combattere le pandemie. Lo dimostrano ancora più chiaramente paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, oggi “in competizione” con paesi del terzo mondo quando a numero di contagiati e morti.

Quindi, il galleggiante Conte può ripetere un milione di volte di non voler sentir parlare di nuovo lockdown generalizzato perché “l’Italia non si può permettere un altro blocco della produzione” (che in realtà era stato molto parziale).

Ma quel che ha combinato fin dal primo momento – in balia dei diktat di Confindustria e dei “poteri concorrenti” dei presidenti di regione, in maggioranza fedeli alle follie fascioleghiste – lì appare dover arrivare. Perché in questo modo la curva dei contagi non potrà che continuare a correre.

Lo dice quasi apertamente Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute Roberto Speranza: In alcune regioni ormai è troppo tardi perché fronteggiano una crescita esponenziale del contagio. Non possono più basarsi sul tracing, devono fare chiusure. Altrove però il tracciamento va potenziato: c’è la prospettiva di una terza ondata”.

Per Ricciardi nelle regioni più in difficoltà “vanno fatte chiusure mirate, con precisione chirurgica. In questa fase non ha senso muoversi a livello regionale ma metropolitano, provinciale, comunale. Non è più il momento di lockdown generalizzati. Ma i governatori devono assumersi le loro responsabilità. Ad alto rischio ora ci sono Milano e Napoli ma anche Roma, tra un po’, potrebbe essere nella stessa situazione”.

Ci dispiace averlo previsto, ma purtroppo era abbastanza semplice. Se ti metti in testa di “difendere il Pil” a scapito della vita e della salute dell’intera popolazione, alla fine ti ritrovi con il Pil che crolla insieme alla salute di tutti.

P.s. Per gli scettici:

Il risultato è facilmente prevedibile: il virus arriverà ovunque, magari un po’ più lentamente grazie allo stop alle manifestazioni pubbliche della movida (ma chi potrà mai limitare quelle private?), e anche il Pil subirà egualmente colpi durissimi.

Chi ha voluto la botte piena e la moglie ubriaca resterà quindi dolorosamente deluso dal calo del Pil. Ma il prezzo del dolore, in massima parte, sarà sulle spalle della popolazione che lavora, tra periodi di malattia, quarantene, ricoveri, morti, perdite di salario o anche del posto

martedì 6 ottobre 2020

Trump tuona contro la Cina. L’Argentina guarda a Pechino

 

Insomma, pare proprio che mentre Trump continua ad alimentare la nuova guerra fredda contro la Cina, parte di quello che una volta era “il cortile di casa” degli Usa sembra andare in una direzione opposta.

Non si tratta solo delle ribelli Cuba e Venezuela, adesso è un paese grande come l’Argentina a individuare in Pechino le possibili soluzioni per la propria e pluridecennale crisi debitoria e finanziaria.

L’agenzia Nova riporta che la prima e significativa novità è che la Banca centrale argentina (Bcra) ha annunciato l’imminente via libera all’acquisto della moneta cinese “yuan” per effettuare transazioni commerciali in Cina e per alcuni contratti di tipo future. Gli argentini non potranno acquistare fisicamente lo “yuan”, non potranno aprire conti correnti nella divisa cinese e le operazioni saranno lecite solo per alcuni mesi, il tempo di chiudere la stagione della raccolta, e attendere il dollaro che gli esportatori (principalmente di soia) immetteranno nel sistema finanziario locale.

Ma si tratta comunque di un’importante apertura all’export cinese e un segnale che le manovre per diminuire la domanda di dollari, causa della costante svalutazione del peso, potranno sempre più spingere Buenos Aires a oriente.

La Cina da tempo ha superato il Brasile come principale partner strategico dell’Argentina. Il quotidiano argentino Pagina 12, rivela di partnership tra Pechino e Buenos Aires nella costruzione o sviluppo di centrali idroelettriche o nucleari, porti, impianti idrici, linee di trasmissione elettriche, ma anche treni, parchi eolici, idrovie e investimenti  sul ricco giacimento petrolifero di “Vaca Muerta”.

Sono in corso negoziati per portare anche l’Argentina nel versante Pacifico della Belt and Road Iniziative (Nuova via della seta).

Il Presidente argentino Fernandez, dopo una lunga conversazione telefonica con Xi Jin Ping ha confermato l’intenzione di recarsi a Pechino entro la fine dell’anno con una delegazione di industriali al seguito.

La Cina ha chiesto a Fernandez di promuovere una maggiore integrazione degli investimenti cinesi all’interno del Mercosud (il Mercato comune del sud cui appartengono Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay) e della Comunità degli stati latinoamericani e caraibici (Celac, organismo che riunisce tutte le Americhe ma senza Usa e Canada).  Una prospettiva che sicuramente viene vista con grande timore ed ostilità a Washington.

Deposto con le elezioni l’uomo degli amerikani, Vincenzo Macrì, l’Argentina di Fernandez non fiancheggia la Casa Bianca nella sua aggressione contro il Venezuela, si è schierata a fianco del Messico per una soluzione politica che passi per il negoziato interno ed ha criticato le sanzioni Usa contro il Venezuela. Non solo.

Al contrario di Washington, non sostiene neanche la presidente golpista ed “ad interim” della Bolivia, Jeanine Anez, ritenendo non legittima la destituzione di Evo Morales, l’ex presidente della Bolivia oggi esiliato a Buenos Aires.

 Insomma, quello che era el patio trasero degli yankee continua a cercare in ogni modo di diventare la “Nuestra America” giocando questa volta di sponda con la Cina.

venerdì 2 ottobre 2020

Usa: il prezzo della menzogna

 

La scorsa settimana, alla Conferenza sulla storia americana della Casa Bianca, il Presidente Donald Trump ha denunciato il modo in cui “la sinistra ha deformato, distorto e contaminato la storia americana con inganni, falsità e bugie”, attaccando Howard Zinn, la teoria critica razziale, e il 1619 Project del New York Times (di cui sono stato contributore).

Il presidente ha enfatizzato la necessità di “un’educazione patriottica” nelle nostre scuole, sottovalutando la centralità della schiavitù, o comunque ogni tipo di oppressione, nella fondazione dell’America.

La nostra missione è di difendere l’eredità della fondazione dell’America, la virtù degli eroi americani e la nobiltà dell’identità americana”, Trump ha detto all’evento. “Dobbiamo cancellare la fitta ragnatela di bugie nelle nostre scuole ed insegnare ai nostri ragazzi la magnifica verità sul nostro paese. Vogliamo che i nostri figli e le nostre figlie sappiano che sono cittadini della più eccezionale nazione della storia del mondo”.

Le nostre storie tendono a discutere la schiavitù americana così imparzialmente”, scrive W. E. B. Du Bois nel suo libro del 1935, Black Reconstruction in America, “i”.

Ascoltando Trump, potremmo pensare che un esame rigoroso della schiavitù e le sue implicazioni siano una parte fondamentale delle lezioni di storia in America. Invece, recenti statistiche dimostrano che i giovani americani hanno enormi lacune nel capire la storia della schiavitù nel nostro paese.

Secondo un report del 2018 del Southern Poverty Law Center, solo l’8% degli studenti dell’ultimo anno di liceo sa che la schiavitù è stato il punto focale della Guerra Civile. Due terzi degli studenti non sapeva neanche che un emendamento costituzionale fu necessario per abolire formalmente la schiavitù.

Quel che mi ha affascinato di più del discorso di Trump è stata la scelta di centrarlo tutto sull’”indottrinamento”. È stato strano realizzare che riportare una narrazione più ampia di quel che fu la schiavitù, e dell’orrore che portò, potrebbe essere considerato indottrinamento, specialmente se le storie che si raccontano sull’America sono imbevute in una mitologia uni-dimensionale dell’eccezionalismo.

Proviamo troppo spesso a cambiare deliberatamente i fatti della Storia che la Storia potrebbe essere una lettura interessante per gli Americani”, scrisse Du Bois in Black Reconstruction.

Du Bois scriveva in un momento in cui la narrativa della schiavitù come “accordo amichevole e benevolente fra schiavista e schiavo” finì per dominare la memoria collettiva americana di quel periodo storico. Molti americani vedevano la schiavitù come un accordo con cui i Neri erano felici di servire i loro padroni bianchi, che a loro volta li servivano con una bontà paterna e gentile.

Questa narrativa fu propagata dallo storico della Columbia University Ulrich Bonnell Phillips, che, con il suo libro del 1918 American Negro Slavery, formalizzò come gli americani bianchi vedevano tale istituzione. “In generale”, scrisse Phillips, “le piantagioni erano le migliori scuole mai inventate per l’addestramento di massa di tutta quella popolazione inerte e riluttante, la maggior parte della quale è rappresentata dai negri americani”.

All’università, Phillips studiò sotto lo storico William A. Dunning, che diede il nome alla Dunning School – non una vera e propria istituzione, ma un movimento intellettuale razzista. L’eredità della Dunning School intende fortificare nella coscienza pubblica americana l’idea secondo cui, dopo la Guerra Civile, i Neri si sono dimostrati, tramite le elezioni e il suffragio, incapaci di partecipare alla democrazia.

Come posto dallo storico Eric Foner, “Alla base della dottrina Phillips vi era l’idea che la schiavitù non fosse davvero un’istituzione inumana basata sulla tortura psicologica e fisica, e che il suo ruolo nella crescita dell’economia americana fu minima.”

Per insegnare la vera storia della schiavitù non serve distorcere, omettere o dire bugie riguardo quel che è accaduto in questo paese; serve semplicemente un’esplorazione dei documenti con fonti primarie per capire il senso di quel che è stato e di quel che ci ha lasciato.

Tutto quel che gli insegnanti devono fare, per insegnare ai ragazzi quel che fu la tratta transatlantica ,è fargli spendere tempo con le memorie di chi l’ha vissuta sulla propria pelle. “Sono stato messo sotto i ponti, e lì recevetti un saluto nelle mie narici come mai avevo provato in vita mia, tanto che, piangendo per l’asprezza della puzza, mi sentii talmente male che non riuscììii a mangiare,” scrisse l’ex schiavo Olaudah Equiano nella sua autobiografia del 1789. “La vicinanza di spazio, il calore del clima, a cui va aggiunto il numero di persone nella nave, che era così affollata che a malapena si riusciva ad avere spazio per se stessi, ci hanno quasi soffocato. Sudavamo tanto e non riuscivamo a respirare per via della puzza orribile, il che causò nausea negli schiavi, per cui tanti poi morivano.

Un insegnante non ha bisogno di dire bugie sul fatto che la Confederazione fosse fondata su principi di tortura intergenerazionale e lavoro coatto quando i Confederati dicevano nelle loro dichiarazioni di secessione:

I popoli degli stati schiavisti sono legati assieme dalla stessa necessità e determinazione di preservare la schiavitù africana”, diceva quella della Louisiana.

La nostra posizione è accuratamente identificata con l’istituzione della schiavitù – il più grande interesse materiale al mondo”, dichiarava quella del Mississippi.

L’elezione del sig. Lincoln non può che essere considerata una solenne dichiarazione, dalla maggioranza del popolo del Nord, di ostilità al Sud, le sue proprietà e istituzioni”, affermava quella dell’Alabama, “consegnando i propri cittadini ad assassini, e le sue mogli e figlie alla violazione e alla contaminazione, per gratificare la brama di Africani mezzo civilizzati.

La servitù della razza africana, come esiste in questi stati”, dice quella del Texas, “è mutualmente benefica per essere legati e liberi, ed è autorizzata abbondantemente e giustificata dall’esperienza dell’umanità e dalla rivelata volontà del Creatore Onnipotente.

Non erano solo i rappresentanti eletti a pensare questo. Lo storico James Oliver Horton ha trovato tantissime testimonianze di soldati confederati che dicevano le stesse cose. Come nota, un prigioniero sudista urlò a soldati unionisti che stavano di vedetta, “Voi Yanks volete che le nostre figlie si sposino con dei niggers”.

Un contadino bianco indigente disse di non poter e voler smettere di combattere, perché il governo di Lincoln “vuole obbligarci a vivere come la razza di colore”. Un artigliere confederato della Louisiana disse che il suo esercito doveva combattere disperatamente perché non avrebbe mai voluto “vedere il giorno in cui un Negro è messo in pari con una persona bianca”.

Un educatore non deve inventare storie su quel che pensavano i nostri Padri Fondatori delle persone nere, visto che l’hanno detto loro stessi.

Paragonandoli sulle loro facoltà di memoria, ragione e immaginazione, mi pare che in fatto di memoria siano uguali ai bianchi; in ragione molto inferiori, se penso che non ne potremmo trovare uno che sia capace di seguire e comprendere le investigazioni di Euclide; ed in immaginazione, sono noiosi, privi di gusto e anomali”, scrisse Thomas Jefferson in Notes on the State of Virginiaaffermo quindi con sospetto, che i neri, sia che fossero originariamente una razza distinta, o che si siano resi diversi dal tempo e dalle circostanze, sono inferiori ai bianchi nella dotazione del corpo e della mente.

Nessun insegnante deve mentire su come agli schiavisti era permesso abusare dei propri lavoratori schiavizzati quando il codice degli schiavi della Virginia rende chiaro che ad una persona bianca è permesso dalla legge di uccidere una persona nera schiavizzata:

LADDOVE l’unica legge in funzione per la punizione dei servi recalcitranti che resistono ai loro signori, signore o sorveglianti non possa essere inflitta sui negri, né possa essere soppressa se non tramite mezzi violenti l’ostinazione di molti di loro, Sia decretato e dichiarato da questa grande assemblea, che se uno schiavo resiste al proprio signore (o ad un ordine del suo signore in modo da correggerlo) e per l’estremità della sua correzione possa esso morire, la sua morte non debba rappresentare un crimine, ma il suo signore (o un’altra persona incaricata dal signore di punirlo) sia scagionato dalla molestia, siccome una tale malizia preterintenzionale (che da sola la renderebbe un crimine) potrebbe indurre qualsiasi persona a distruggere la sua proprietà.”

Non è necessario drammatizzare o esagerare lo sbilanciamento di potere tra schiavista e schiavo – e la violenza con cui questo sbilanciamento si è manifestato tra schiave donne e uomini bianchi – quando innumerevoli esempi dei racconti di schiavi ricordano storie dell’abuso sessuale che le donne nere subivano dai loro padroni bianchi. Prendete questa testimonianza del 1937 dell’ex schiavo W. L. Bost, inclusa nella Federal Writers Project della WPA:

Tantissime donne nere fanno figli con uomini bianchi. Sanno che è meglio seguire quello che viene detto loro. Non c’erano questi casi prima che gli uomini arrivassero qui dal South Carolina [al North Carolina], si stanziassero e portassero schiavi. Poi prendono quegli stessi figli che hanno fatto con il sangue e poi li fanno schiavi. Se la Signora lo scopre scatena la rivoluzione. Ma difficilmente lo scopre. Gli uomini non lo dicono e le donne negre sono sempre impaurite. Quindi continuano a sperare che le cose non saranno le stesse per sempre.

O questo passo dal libro del 1861 di Harriet Jacobs, Incidents in the Life of a Slave Girl:

Il mio signore mi incontrava ad ogni turno, ricordandomi che io appartenevo a lui e giurando che mi avrebbe costretta a sottomettermi a lui. Se uscivo per prendere una boccata d’aria dopo una giornata di fatica instancabile, i suoi passi mi seguivano ostinatamente. Se mi inginocchiavo presso la tomba di mia madre, la sua ombra oscura cadeva su di me perfino lì. Il leggero cuore che la natura mi diede divenne pesante con tristi presagi.

Per capire l’impatto e il costo umano della separazione familiare, basta leggere semplicemente le inserzioni messe sui giornali dalle persone schiavizzate nei decenni seguenti la Guerra Civile e l’abolizione formale della schiavitù. Ad esempio questa a Philadelphia, presa da Eliza Holmes nel 1895:

INFORMAZIONE RICHIESTA SU mio marito e mio figlio. Ci siamo separati a Richmond, Virginia, nel 1860. Il nome di mio figlio era Jas. Monroe Holmes; il nome di mio marito era Frank Holmes. Mio figlio è stato venduto a Richmond, Virginia. Non so dove l’abbiano portato. Mio marito non fu venduto; l’ho lasciato a Richmond, Virginia, quando io e i miei cinque figli, Henry, Gabriel, Charles, Dortha e Jacob, fummo venduti ad un mercante che viveva in Texas. Ora sono vecchia e non penso di avere ancora molto, quindi mi piacerebbe rivederli prima che io muoia. Qualsiasi informazione riguardo loro sarà piacevolmente accolta da Eliza Holmes, Flatonia, Fayette Co., Texas

L’intensità dell’opposizione che Trump e molti altri mostrano riguardo al porre al centro la schiavitù, o anche semplicemente ri-orientare la storia del nostro paese cosicché la schiavitù non sia più esterna alla fondazione del progetto americano, proviene dal loro ragionamento su quel che si gioca in questo dibattito.

Così tanto della legittimità dell’infrastruttura politica, economica e sociale americana è predicata su un mito antistorico – quello che accetta tutto quel che rende l’America eccezionale, senza andare a sbattere contro il fatto che le risorse che hanno creato vite eccezionali per alcuni cittadini furono create dall’oppressione intergenerazionale di milioni di altri.

Lo studio della schiavitù dimostra chiaramente queste contraddizione e queste messinscene. Trump e coloro i quali si allineano al suo messaggio sanno che una volta che le persone hanno capito quest’imbroglio sulla schiavitù in ogni sfaccettatura della storia degli Stati Uniti, la legittimità dei suoi sistemi si svela, e con essa la legittimità di chi occupa spazi di potere.

Se gli studenti non imparano la storia della schiavitù, potrebbero quindi pensare che l’Electoral College sia un’istituzione benigna dedicata ad istituire la giustizia democratica per gli Americani in tutto il paese. Potrebbero crescere pensando che il gigantesco divario di ricchezza tra le persone nere e i bianchi siano fondate sul fatto che un gruppo lavora più sodo dell’altro. Potrebbero pensare che il nostro sistema carcerario è oggi così perché i Neri sono inerentemente più violenti.

Nessuno può leggere la prima autobiografia di Frederick Douglass ed avere troppe illusioni riguardo la schiavitù”, scrisse Du Bois in Black Reconstruction, E se la verità è il nostro fine, non esistono fantasticherie o ricordi personali dei suoi beneficiari che possano nascondere al mondo il fatto che la schiavitù fu un crudele, sporco, costoso e ingiustificabile anacronismo, che ha quasi rovinato il più grande esperimento di democrazia al mondo.”

Questo è quello che Trump ha paura che gli studenti scoprano.

Ma la verità è che il nostro paese non peggiora se i giovani fanno i conti pienamente con i lasciti della schiavitù. Queste riflessioni li preparano meglio a dare un senso su come si è evoluto il nostro paese e sul costruire sistemi ed istituzioni basati sulla giustizia invece dell’oppressione. Nulla è più patriottico di questo.

mercoledì 23 settembre 2020

Come cambia il trasporto mondiale delle merci

 

Durante una cerimonia ad aprile, tenendo una piccola ascia in una mano guantata di bianco, la first lady della Corea del Sud, Kim Jung-Sook, ha tagliato le funi che legavano la HMM Algeciras e ha lanciato ufficialmente la più grande nave portacontainer del mondo.

La nave, alta come una torre, la prima di una dozzina ordinata dalla compagnia di navigazione HMM, ha le dimensioni di quattro campi da calcio. Se caricati su un treno, i 23.964 container da 20 piedi che può trasportare si estenderebbero per quasi 145 chilometri.

Eppure, nonostante tutto lo sfarzo mostrato al cantiere navale Daewoo quel giorno, il tempismo non avrebbe potuto essere meno propizio. I lockdown globali avevano ormai strangolato l’attività economica negli Stati Uniti e in Europa, che sono i maggiori mercati per le esportazioni asiatiche di prodotti manifatturieri.

Di conseguenza c’è stato un forte calo del traffico di container marittimi, milioni dei quali attraversano gli oceani supportando le catene di approvvigionamento globali e trasportando di tutto, dall’elettronica all’abbigliamento ai rottami metallici e alla frutta fresca.

A maggio, quasi il 12% dell’intera flotta globale era inattiva, secondo i dati di Clarksons Research. Decine di migliaia di marinai sono rimasti bloccati in mare.

“Lo shock della domanda è stato ancora più forte che durante la crisi finanziaria globale”, afferma Morten Bo Christiansen, a capo della direzione strategica della danese AP Moller-Maersk, la più grande compagnia di spedizioni di container del mondo. “In ogni modo è stato senza precedenti.”

In un simile contesto, il settore del trasporto di container da 180 miliardi di dollari l’anno avrebbe potuto trovarsi in una condizione pericolosa, soprattutto dato il suo recente record di deboli profitti e sovraccapacità. Eppure, sei mesi dopo che la pandemia ha portato il caos nell’economia globale, molte delle linee di container hanno superato la crisi sorprendentemente bene.

Riducendo i servizi per prevenire la sovraproduzione, finora non solo si sono protetti da un assalto finanziario, ma molti stanno facendo più soldi di prima.

I vettori hanno imparato una lezione preziosa quest’anno“, afferma Lars Jensen, amministratore delegato di SeaIntelligence Consulting. “A meno che qualcosa non vada orribilmente storto negli ultimi mesi, usciranno dal 2020 con un risultato finanziario molto migliore rispetto allo scorso anno, nonostante l’interruzione“.

Data la sua posizione al centro dell’economia globale, la performance dell’industria del trasporto di container risuona ben oltre il settore. Alcuni economisti sono arrivati ​​al punto di ipotizzare che Covid-19 potrebbe persino significare la fine dell’era d’oro della globalizzazione, un periodo di cui i container sono stati sia il simbolo che lo strumento. Ci sono anche molti problemi a breve termine ancora da affrontare, compresi i lavoratori marittimi ancora impossibilitati a tornare a casa.

Ma finora l’industria ha dimostrato una notevole capacità di recupero. L’aumento dell’e-commerce gli ha dato una spinta. Si sta anche studiando l’opportunità di viaggi più brevi all’interno delle regioni su navi di dimensioni più piccole e più agili di quelle come HMM Algeciras – un’indicazione che il modello della globalizzazione potrebbe cambiare piuttosto che ritirarsi.

Roberto Giannetta, capo della Hong Kong Liner Shipping Association, afferma che mentre l’ambiente marittimo “cambia rapidamente”, il commercio globale “si è adattato e adattato molto rapidamente in modo tale da poter continuare ininterrottamente per un po’ più a lungo”.

Capacità ridotta, prezzi più alti

L’invenzione della moderna spedizione di container, negli anni ’50, ha rivoluzionato il commercio internazionale. I carichi sfusi trasportati in casse di legno, barili e sacchi di dimensioni diverse venivano movimentati da eserciti di portuali. Riducendo la necessità di manodopera e il rischio di furto e danneggiamento, la modesta scatola di metallo ha ridotto i costi e i tempi per lo spostamento delle merci attraverso gli oceani.

Ha scatenato un’enorme espansione del commercio durante la seconda metà del 20 ° secolo. I volumi di container marittimi sono aumentati quasi ogni anno negli ultimi quattro decenni, da circa 100 milioni di tonnellate nel 1980 a 1,8 miliardi di tonnellate nel 2017, secondo le Nazioni Unite. Fino ad ora, l’unica contrazione durante quel periodo è stata a seguito della crisi finanziaria del 2008-2009.

Hai difficoltà a trovare un settore che abbia creato collettivamente tanto valore quanto la spedizione di container, perché è lì che si muovono tutti i prodotti di valore“, afferma John McCown, un veterano del settore dei trasporti e fondatore di Blue Alpha Capital, una società di consulenza. “Eppure, per molte ragioni, resta poco prezioso per l’industria stessa. È stato cronicamente sottoperformante, nonostante una crescita incredibile“.

La concorrenza brutale ha reso elusiva una redditività sostenuta e dignitosa. Il settore comprende una flotta di circa 5.000 navi. Dopo il crollo finanziario globale, i vettori hanno continuato a ordinare navi sempre più grandi mentre inseguivano economie di scala, culminando in guerre sui prezzi che hanno martellato i guadagni. Un rapporto McKinsey nel 2018 ha stimato che negli ultimi 20 anni l’industria del trasporto di container  ha distrutto 100 miliardi di dollari di valore per gli azionisti.

Il pendolo ora sta oscillando dall’altra parte. Nonostante i timori iniziali sull’impatto del Covid-19, le tariffe di trasporto applicate dai vettori – un barometro chiave dello stato di salute del mercato – hanno ampiamente resistito.

L’indice composito dello Shanghai Containerized Freight Index, un punto di riferimento per i prezzi del mercato spot, ha recentemente raggiunto un massimo da otto anni ed è aumentato di oltre la metà da aprile, il suo punto più basso quest’anno. Ciò è stato determinato da un aumento delle “toccate” tra Shanghai e le coste degli Stati Uniti, nonché sulle rotte verso l’Europa.

Il consolidamento del settore ha portato a tassi più elevati. Dopo il fallimento della coreana Hanjin Shipping, nel 2017, il primo grande crollo nel settore da 30 anni a questa parte, il numero di vettori si è ridotto. Le navi di linea dominanti oggi operano nell’ambito di tre principali “alleanze”, i cui membri condividono lo spazio a bordo e raggruppano le navi in base ai servizi.

Insieme, queste tre alleanze controllano circa l’85% della capacità sulle rotte commerciali transpacifiche e quasi tutte sulle rotte commerciali dell’Estremo Oriente [verso] l’Europa, con un comportamento molto più razionale [di prima]”, afferma David Kerstens, analista di investimenti presso Jefferies.

Dall’inizio della pandemia, le compagnie di linea hanno parcheggiato parte delle navi, inviato navi per viaggi più lunghi e annullato centinaia di partenze, il che ha ridotto la capacità disponibile.

Questa scelta ha dato i suoi frutti. La divisione oceanica di Maersk ha registrato un aumento del 26% (1,36 miliardi di dollari) su base annua degli utili del secondo trimestre, ante interessi, tasse, deprezzamento e ammortamento, nonostante un calo del 16% dei volumi. Ciò grazie alla gestione della capacità della rete, delle tariffe di trasporto più elevate e costi del carburante inferiori, a seguito del crollo dei prezzi del petrolio.

L’EBITDA del secondo trimestre del rivale tedesco Hapag-Lloyd è cresciuto di sei mesi su un anno, mentre HMM – che ha una storia recente fatta di salvataggi statali – ha registrato nel trimestre un utile operativo per la prima volta in circa cinque anni.

Se l’attuale forza del mercato persiste, SeaIntelligence Consulting prevede un profitto totale del settore compreso tra $ 12 e $ 15 miliardi nel 2020, un sostanziale miglioramento rispetto ai $ 5,9 miliardi dello scorso anno.

Il rovescio della medaglia è che i clienti interessati a spostare le merci – gli “spedizionieri” – devono pagare di più. Anche se alcune partenze annullate sono state ripristinate, ci sono lamentele riguardo alle difficoltà di ottenere spazio a bordo di navi e navi di linea che addebitano premi per evitare che il carico venga “trasferito” su navi successive.

È meglio di come è stato nel bel mezzo della pandemia, ma non è ancora eccezionale“, afferma Philip Edge, amministratore delegato della Edge Worldwide Logistics del Regno Unito. “Le tariffe per la spedizione di merci veramente urgenti [dall’Asia all’Europa], sono il doppio di quanto paghi normalmente. È un incubo. Al momento devi prenotare da quattro a sei settimane in anticipo.

Mentre i critici affermano che le alleanze del settore distorcono la concorrenza, i dirigenti affermano che si ignorano le tensioni finanziarie che le aziende devono affrontare.

Questo settore non ha recuperato il costo del capitale negli ultimi 10-12 anni, in nessun anno”, afferma Rolf Habben Jansen, amministratore delegato di Hapag-Lloyd, [quindi] probabilmente perché le tariffe sono state tradizionalmente troppo basse.

I volumi di container marittimi sono aumentati quasi ogni anno negli ultimi quattro decenni, da circa 100 milioni di tonnellate nel 1980 a 1,8 miliardi di tonnellate nel 2017, secondo le Nazioni Unite


Disordini sindacali

Anche se le linee di container possono continuare a mantenere la disciplina di fornitura che supporta tassi più elevati, potrebbero comunque essere impattate da fattori umani e politici al di fuori del loro controllo.

Quando a gennaio si è imbarcato su una nave portacontainer per lavorare come terzo ufficiale, Martin Li si aspettava di essere in mare solo per quattro mesi. Ma dopo che la pandemia ha impedito agli equipaggi di poter sbarcare, il marinaio, sulla trentina, si è ritrovato bloccato sulla nave, viaggiando ripetutamente tra il Canada e l’Europa senza alcuna idea di quando sarebbe tornato a casa. “Stavamo solo andando avanti e indietro“, dice. “L’operazione non si è mai fermata.

Il signor Li alla fine è tornato a Hong Kong in agosto. Ma si ritiene che 250.000 persone siano ancora abbandonate in situazioni simili. Le autorità di alcuni paesi hanno impedito lo sbarco dei marittimi per motivi di rischio di infezione. Un altro ostacolo è il fermo delle compagnie aeree internazionali su cui molti fanno affidamento per tornare a casa dopo i viaggi. La maggior parte dei marittimi stimati nel mondo a 1,65 milioni proviene da paesi come Cina, Filippine, Indonesia, Russia, Ucraina e India.

Quella che era già una crisi umanitaria per chi lavorava a bordo delle navi portacontainer comincia ora ad avere implicazioni per le merci che transitano. Secondo l’Organizzazione marittima internazionale, circa il 90% di tutto il commercio è trasportato via mare – più della metà su navi portacontainer. I sindacati affermano che la stanchezza e lo stress emotivo tra il personale aumentano il rischio di errori a bordo.

Avvertendo il potenziale rischio per le catene di approvvigionamento, Fidelity International, un asset manager, ha invitato aziende e governi ad affrontare il problema.

Sembra che siano diventati un esercito di persone dimenticate“, dice Guy Platten, segretario generale della Camera di spedizione internazionale. “Questo alla fine influenzerà le catene di approvvigionamento.

Il signor Platten sottolinea i “primi segni” di questo in Australia, dove gli equipaggi si sono rifiutati di lavorare e le navi sono state sequestrate dal governo per aver violato le leggi sul lavoro. “Quello che vedi in Australia. . . questa è solo la punta dell’iceberg“, dice. “Questo è quello che potrebbe accadere in tutto il mondo.


Commercio regionalizzato

Il progresso inarrestabile della globalizzazione ha generato navi sempre più grandi per soddisfare una domanda di beni apparentemente inesauribile da parte dei consumatori.

Ma se HMM Algeciras simboleggia l’apice della logistica transoceanica, alcune compagnie di linea stanno ora scommettendo che il commercio futuro potrebbe essere più adatto a navi che non sono così grandi e vantano una maggiore flessibilità e velocità.

Nel 2014, Zim, una compagnia di navigazione israeliana, ha cancellato la sua rotta dalla Cina alla costa occidentale degli Stati Uniti perché non poteva competere con i grandi vettori. Ma sulla scia della pandemia ha lanciato un nuovo “servizio accelerato” che trasporta le merci più velocemente, spostando le merci dai magazzini di Shenzhen al porto di Los Angeles in due settimane: approvvigionando di un mondo che in gran parte sta a casa.

Abbiamo individuato una necessità“, afferma Nissim Yochai, vicepresidente esecutivo di Zim per il commercio transpacifico. “Questa esigenza è cresciuta a causa del virus.

L’accelerazione nell’e-commerce sta influenzando la spedizione di container. Gli articoli ordinati online dai consumatori occidentali da fornitori asiatici vengono in genere trasportati nel ventre degli aerei, un metodo molto più veloce che via mare. Ma la messa a terra della maggior parte della flotta aerea globale significa che è stato necessario spedire più articoli.

Il settore del trasporto di container comprende una flotta di circa 5.000 navi e genera un fatturato stimato di 180 miliardi di dollari all’anno

Un altro fattore contro navi sempre più grandi è che il traffico di container sulle rotte intraregionali dovrebbe crescere più rapidamente rispetto alle tre principali rotte est-ovest – transpacifica, transatlantica e Asia-Europa – che insieme rappresentano circa i due quinti di tutto traffico container.

Arriva quando molte aziende rivalutano le loro catene di approvvigionamento dopo che il coronavirus ha esposto le vulnerabilità nel modo in cui le merci sono prodotte e distribuite. Uno studio del Global McKinsey Institute ha rilevato che le aziende potrebbero trasferire un quarto del loro approvvigionamento di prodotti globali in nuovi paesi nei prossimi cinque anni.

Paesi come Vietnam, Cambogia, Laos e Bangladesh stavano già costruendo forti settori manifatturieri, un riflesso di manodopera a basso costo e aziende che cercavano di evitare i dazi statunitensi sui beni cinesi. L’aumento dei livelli di reddito dovrebbe significare che queste nazioni avranno un maggiore appetito per i prodotti manifatturieri.

La regione intra-asiatica sembra essere il mercato che attira sempre più attenzione da parte delle compagnie di navigazione“, afferma Antonella Teodoro, analista di MDS Transmodal.

Significherà più navi che si fermeranno nei porti del continente e viaggeranno per distanze più brevi, invece di caricare completamente in Cina e salpare per l’ovest. I porti regionali più piccoli spesso non dispongono di infrastrutture adeguate per le navi più grandi, mentre anche sulle rotte principali potrebbero esserci rendimenti di dimensioni inferiori.

Abbiamo più o meno raggiunto il limite [sulle dimensioni della nave]”, afferma Jensen di SeaIntelligence.

Mentre l’elettronica di consumo più piccola significa che TV e computer occupano già meno spazio, la composizione delle merci all’interno dei container potrebbe evolversi ulteriormente.

Un’area che dovrebbe rivelarsi fertile è il carico deperibile, che si prevede abbia sofferto meno dell’impatto del Covid-19 rispetto ai prodotti manifatturieri, secondo la società di consulenza per la ricerca marittima Drewry. Si prevede un’espansione media annua del 3,7% fino al 2024 nei container refrigerati, o “reefers”, rispetto al