lunedì 17 gennaio 2011

Che al referendum di Mirafiori abbiano prevalso i “sì” non ci sono dubbi, o quasi. Ma è lecito, da parte di chi si è schierato con Marchionne e con la FIAT, parlare di vittoria? Secondo me no.
Tuttavia, prima di addentrarmi nella trattazione dell’argomento, desidero fare chiarezza: io non ho sostenuto né la FIOM né tanto meno Marchionne; ho sostenuto i lavoratori (in primo luogo gli operai della catena di montaggio che a cinquant’anni soffrono di tendinite e dolori alla schiena), tutti, compresi quelli non sindacalizzati e quelli che non hanno neanche partecipato al referendum.
In queste settimane, a causa del pessimo clima politico e degli atteggiamenti assunti dal governo, culminati nelle dichiarazioni di Berlusconi a Berlino (“Se vince il no, la FIAT fa bene ad andarsene dall’Italia”), chiunque si sia schierato in difesa del primo articolo della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori è stato tacciato di essere “retrogrado”, “contrario al cambiamento”, “incapace di adattarsi ai mutamenti globali” e via insultando, in un crescendo di attacchi e di cattiverie.
Che nel mondo sia in atto un processo di globalizzazione che ci obbliga a fare i conti con nuove sfide, completamente diverse da quelle del passato, non deve certo venircelo a spiegare Marchionne, per quanto sia un giramondo esperto di vari continenti.
Il vero dilemma sta in come affrontare questo processo che – si mettano l’anima in pace gli scettici – è ormai inarrestabile. Vogliamo governarlo o rimanerne schiacciati? Vogliamo esserne protagonisti o diventarne schiavi?
Sono questi i punti sui quali avrei voluto che si dibattesse maggiormente nei giorni caldi della vertenza; sono queste le riflessioni che mi hanno portato a formulare un giudizio negativo sull’accordo firmato da tutti i sindacati, tranne la FIOM e i COBAS.
Come ha scritto su “Europa” l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano: “La nuova norma, imposta dalla FIAT con la minaccia di dirottare all’estero gli investimenti annunciati per Mirafiori, opera un cambiamento inaccettabile nelle regole della rappresentanza. E costituisce un errore politico rilevantissimo, destinato a ritorcersi in futuro contro la stessa azienda”.
Agli alfieri del riformismo modello Marchionne, faccio notare alcuni aspetti sui quali forse non hanno riflettuto.
Innanzitutto, un’azienda, specie se grande ed importante come la FIAT, non può essere competitiva se i suoi dipendenti non si sentono sufficientemente coinvolti nelle scelte decisionali.
Non è un concetto economico, è un semplice principio psicologico: se ciò che fai non ti appaga, non ti interessa e anzi lo fai con sofferenza e controvoglia, se non puoi farne a meno, lo fai comunque; ma non lo farai mai con lo stesso entusiasmo, la stessa applicazione e, soprattutto, ottenendo gli stessi risultati che otterresti se ti sentissi appagato dal tuo lavoro.
A chi sostiene che l’aspetto umano, nell’era della globalizzazione, non conti più nulla e vada riposto in soffitta, consiglio di leggere questa spiegazione sui limiti dell’organizzazione del lavoro nei primi decenni del Novecento.
“I problemi del taylorismo e del fordismo non si esauriscono però nella necessità di impianti dispendiosi. Taylorismo e fordismo sono stati chiamati da alcuni sociologi dell’industria sistemi a basso affidamento. Le mansioni vengono stabilite dalla direzione e adattate alle macchine. I lavoratori sono strettamente sorvegliati e dotati di scarsa autonomia d’azione. Per mantenere la disciplina e assicurare gli standard di produzione, i dipendenti vengono continuamente monitorati attraverso sistemi di sorveglianza di vario tipo. Questa costante supervisione produce però un risultato opposto a quello atteso in termini di impegno dei lavoratori, che si sentono demotivati e senza voce in capitolo circa il lavoro e il suo svolgimento. Dove vi sono molte mansioni a basso affidamento, il livello di insoddisfazione e assenteismo dei lavoratori è alto, il conflitto industriale frequente.
I sistemi ad alto affidamento sono quelli in cui i lavoratori sono lasciati abbastanza liberi di controllare l’andamento, e anche il contenuto, del lavoro, all’interno di alcune linee guida prestabilite. Nelle organizzazioni industriali queste posizioni sono concentrate di solito ai livelli direttivi. Negli ultimi decenni i sistemi ad alto affidamento sono diventati più comuni in molti contesti, trasformando il modo di concepire l’organizzazione e l’esecuzione del lavoro”.
L’autore di questa riflessione non è un pericoloso “sovversivo rosso” della FIOM, ma Anthony Giddens, uno dei padri della sociologia moderna, nonché politologo e principale ideatore della “terza via” di Tony Blair.
È opportuno sottolineare quest’aspetto affinché sia chiaro a tutti che il progressismo riformista  non può prescindere dalla tutela dei diritti dei lavoratori; e quando si parla di cambiamento, si deve guardare nella direzione di un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi sociali più deboli.
Il modello Marchionne di quattro anni fa era autenticamente progressista e aveva il pieno appoggio di tutti i riformisti. Il modello Marchionne attuale guarda indietro, al taylorismo e al fordismo, ad un contesto lavorativo improponibile nella nostra società, restaurando un sistema fallimentare e bocciato dalla storia dopo decenni di lotte sindacali e conquiste democratiche, costate un prezzo in molti casi altissimo a chi si è battuto per quegli ideali.
 A questo punto, però, si impone la conclusione più amara: perché Marchionne ha cambiato rotta? Cosa è accaduto nel frattempo? È tutta colpa della crisi economica? No, la crisi economica è un “sempreverde” che si porta su tutto, un ombrello utile per coprire qualunque politica sbagliata (sia essa industriale o economica, vero ministro Tremonti?) ma incapace di giustificarla al cospetto di un’analisi più attenta.
Il motivo per cui Marchionne si è potuto permettere questo “ricatto” è che i veri riformisti sono stati sostituiti al governo da una destra ultra-conservatrice che nulla ha a che vedere con la destra liberale di stampo europeo.
Se non ci fosse stato da piangere e da vergognarsi, veniva quasi da ridere nel vedere Berlusconi accanto alla Merkel: da una parte, un “viveur” che non perde occasione – neanche all’estero, anzi soprattutto all’estero – per occuparsi delle sue questioni personali, a cominciare dai “perfidi giudici komunisti” che lo perseguitano; dall’altra, una signora che, quando Marchionne voleva acquistare la OPEL con un’offerta viziata da pesantissimi costi sociali, gli disse “no, grazie” e lo rispedì in Italia.
Sa bene la Merkel, pur essendo una donna di destra, che non si può governare bene andando contro i propri cittadini, contro i propri dipendenti nel caso di un’azienda, contro coloro cui ti lega un destino indissolubile perché se vai a fondo tu, vanno a fondo pure loro ma se loro smettessero di produrre, tu saresti una persona finita e, trattandosi nel caso specifico della FIAT, sarebbe finito pure il tuo Paese.
Perché, che piaccia o meno a Marchionne, FIAT significa Fabbrica Italiana Automobili Torino; e senza la FIAT, Torino sarebbe come Roma senza Camera e Senato e come Milano senza Piazza Affari.
Ha, purtroppo, ragione chi definisce la scelta di Marchionne una “svolta epocale” nel sistema delle relazioni sindacali e dei rapporti industriali. È lo specchio di quest’Italia mitridatizzata, ormai abituata (o, forse, rassegnata) al continuo susseguirsi di ricatti, veleni, miasmi d’ogni tipo, per cui uno in più o uno in meno non fa più differenza.
Il fronte del “sì” canta vittoria, il governo tifoso si unisce al coro di giubilo. Tutto appare normale, come prima, meglio di prima, ma non è così.
A Mirafiori abbiamo perso tutto e tutti: ha perso la democrazia; ha perso un secolo di diritti faticosamente conseguiti in seguito a battaglie durissime; hanno perso i sindacati che hanno firmato l’accordo, perché una volta affermatosi questo modello, dovranno accettarlo ovunque, anche dove non saranno d’accordo, anche a costo di mettersi contro i propri stessi iscritti; ha perso la FIAT, perché la Germania dimostra che questi comportamenti sono assai poco accettati all’estero; ha perso l’Italia, perché  da questo momento non si può più ritenere “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

lunedì 3 gennaio 2011

LA POLITICA ESTERA DEL CUCU'

Il no del Brasile all’estradizione di Cesare Battisti, terrorista e omicida conclamato e mai pentito, è una decisione grave e profondamente sbagliata ed è l’ultimo di una serie di smacchi subiti dall’Italia sulla scena internazionale negli ultimi trenta mesi, al di là delle rodomontate del Cavaliere che – dice lui – frenò la guerra tra Russia e Georgia, contribuì al “reset” delle relazioni tra Washington e Mosca, convinse la Turchia ad accettare l’ex premier danese Anders Fogh Rasmussen a capo della Nato e via vantando. In realtà, di concreto, la politica estera italiana ha poco da esibire dal 2008 a oggi, a parte qualche bella foto di Mr B con i Grandi della Terra “rubata” nei tempi morti di qualche Vertice: il premier, questo gli va riconosciuto, è abilissimo a inserirsi nel crocchio giusto al momento dello scatto che conta, al G8 o al G20 o in qualsiasi altro consesso internazionale; così com’è recidivo nel giungere fuori tempo massimo a un Vertice, bloccato sulla soglia da una telefonata irrinunciabile (da ultimo gli accadde a metà novembre, a Lisbona, quando l’ira neppur troppo funesta di Mara Carfagna lo fece arrivare in ritardo alla riunione dei leader dell’Alleanza atlantica).
Lasciamo da parte gli imbarazzi di Wikileaks, almeno quelli “stile gossip”, perché lì Berlusconi sta in solida e larga compagnia. E tiriamo pure una croce sopra la litania di baci e abbracci a oligarchi e dittatori, dal russo Vladimir Putin al libico Muhammar Gheddafi, passando per i pre e post-sovietici – che pari sono – Aleksander Lukashenko, bielorusso, e Nursultan Nazarbayev, kazako (ma non c’è un pizzico di contraddizione a fare l’elogio democratico di quei due puri prodotti stalinisti, quando in patria si colpiscono con l’anatema ‘comunisti’ oppositori che possono al massimo vantare come esperienza di sinistra l’infanzia all’oratorio?).
Il problema non è quanto poco l’Italia conti non nel Mondo, che, in fondo, ci può anche stare: non siamo un grande Paese in termini demografici e non siamo fra i primissimi in termini di ricchezza né assoluta né pro capite; non sediamo in modo stabile nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e non abbiamo – è storia vecchia – un record immacolato, in termini di credibilità internazionale, anche se non siamo mai venuti meno finora alla lealtà atlantica ed europea. La misura della mancanza di peso dell’Italia la dà proprio l’Ue, dove pure avremmo tutti i motivi per sentir-ci grandi: le dimensioni, l’economia, l’essere nel nucleo fondatore. E, invece, nelle corse ai posti che contano dell’Unione del Trattato di Lisbona, l’Italia non ce l’ha mai fatta. Puntava alla presidenza del Parlamento europeo, che – si badi – non ha mai avuto da quando l’Assemblea è eletta a suffragio universale, cioè dal 1979, 31 anni e 13 presidenti fa, perché ce ne sono due a legislatura; ma il gruppo del Ppe, proprio quello di cui fa parte il Pdl del premier, ha preferito il polacco Jerzy Bozek al degnissimo candidato italiano Mario Mauro.
Ha poi provato, con scarsa convinzione e molta goffaggine, a ottenere per Massimo D’Alema il posto di ministro degli Esteri europeo, subendo il gioco dai socialisti, cui il posto spettava e che avevano un altro candidato. E, infine, è stata esclusa da tutti i posti che contano della nuova diplomazia europea gestita da Lady Ashton, che non ha nessun italiano nel suo ‘inner circle’ e che ha mandato ambasciatori italiani in Albania, dove non avevamo certo bisogno di contare di più di quel che già contiamo, e in Uganda, dove, comunque, non conteremo nulla. E quando, recentemente, un italiano ha ottenuto un incarico di prestigio – Giovanni Kessler è stato nominato alla guida dell’agenzia europea anti-corruzione decisione è parsa quasi rispondere alla legge del contrappasso: mettere la lotta alla corruzione in mano a un italiano, proprio nei giorni in cui la fiducia al governo, a Roma, ruotava intorno alla compravendita di una manciata di voti.
La poca credibilità dell’Italia berlusconiana nuoce ai candidati migliori. Il governatore di BankItalia Mario Draghi ha le carte in regola per ambire alla guida della Banca centrale europea, ma non è affatto sicuro di riuscire a succedere a Jean-Claude Trichet (e non solo perché la Germania vuole quel posto). E non è solo questione di poltrone: la vicenda del brevetto europeo, dove l’Italia s’è fatta sbattere dietro la lavagna della classe di europeismo, beffata persino dalla Gran Bretagna, dimostra un’imbarazzante incapacità di costruire alleanze e di cucire rapporti. La prossima volta che vede Sarkozy, o la Merkel, Mr B, invece di raccontargli barzellette o di farle cucù, provi a condividere con loro una strategia e degli obiettivi.