venerdì 29 ottobre 2010

ANALISI DEL LAVORO

Il  parametro più importante per spiegare la qualità di vita della popolazione adulta è il lavoro. Gli studi scientifici hanno dimostrato che la variabile più importante per spiegare la longevità dei cittadini è il tipo di lavoro che fanno. Migliore è la qualità del lavoro (cioè, maggiore è la possibilità di dimostrare nel proprio posto di lavoro la creatività che l’intero essere umano possiede, maggiore è il controllo del suo ambiente lavorativo e delle sue condizioni di lavoro e maggiore la soddisfazione per il suo lavoro), maggiore sarà il numero di anni di vita di un cittadino. In realtà, il lavoro rappresenta le 24 ore della giornata, e non solo le otto ore della giornata lavorativa. E il punto più debole delle nostre società è che, per la maggior parte delle persone che lavorano, il lavoro non è, in sé, un mezzo di divertimento, creatività e soddisfazione, ma un semplice strumento per raggiungere i mezzi –soldi- affinché quell’ individuo si senta realizzato nel mondo del consumo.
La società dei consumi fa diventare il mondo lavorativo un semplice strumento per poter consumare.
Quello che la persona ha (il consumo) dipende da quello che fa (il lavoro). Quindi, la gente comune, nella grande saggezza che le dà la sua esperienza quotidiana, quando vuole sapere di una persona, dopo averle chiesto il suo nome, solitamente chiede: “E Lei, che lavoro fa?”. E quando le viene data la risposta a questa domanda conosce già molto dell’altra persona, compreso il livello di consumo, il tipo di abitazione che ha e il tipo di vicinato dove abita, così come il suo stile di vita e così via.
Ma il lavoro non è soltanto un bene individuale, ma anche collettivo. Cioè, quante più persone lavorano (e con un buon lavoro), maggiore ricchezza risiede in un paese. In realtà, il fatto che in Spagna siamo meno ricchi della maggioranza dei paesi dell'Europa è dovuto al fatto che rispetto a loro abbiamo meno persone occupate. Tuttavia, per avere un buon lavoro  bisogna prima avere un lavoro. E questo non c’è in abbondanza. Ed è lì che comincia il problema. Se tutte queste persone che desiderano avere un lavoro riuscissero a trovarlo e ci fosse la piena occupazione, la domanda non sarebbe solo di lavoro, ma di buon lavoro. Un buon lavoro sarebbe l’obiettivo principale della maggior parte della popolazione adulta. Ma quando c’è tanta disoccupazione, le domande diminuiscono e si chiede lavoro e basta.
La disoccupazione, tuttavia, si dà quando c’è meno offerta lavorativa di quella che desidera la popolazione che cerca lavoro. E questo può rispondere a diverse ragioni. Una è che l’economia è ferma e non c’è sufficiente domanda di prodotti e servizi, quindi le aziende diminuiscono la loro produzione e licenziano i loro lavoratori. Questo è quello che sta accadendo adesso. Ma oltre a questo ci sono delle cause strutturali che esistono da molti anni. Una è il cambiamento tecnologico, che consente a un lavoratore di fare ciò che prima facevano in venti. Un’altra è lo spostamento delle aziende in altri paesi, dove si portano anche i posti di lavoro. E un’altra ancora è l’immigrazione, che aumenta la quantità della popolazione in cerca di lavoro. Ognuna di queste cause strutturali può variare a seconda delle decisioni politiche.
Un altro modo per ridurre la disoccupazione, su cui non si sta indagando così tanto come su quelli precedenti, è aumentare l’offerta lavorativa riducendo il numero di ore lavorate. Questo è infatti quello che fece l’Amministrazione Roosevelt con il New Deal, quando la disoccupazione aumentò notevolmente durante la Grande Recessione. Nel 1940 Roosevelt emanò una legge che stabiliva la settimana lavorativa di cinque giorni, quando prima era di sei giorni. Questo cambiamento fu molto importante, e non solo aumentò la qualità di vita della popolazione lavorativa (e quella delle sue famiglie), ma aumentò in modo significativo l’offerta lavorativa. Da qui che una misura di grande efficienza per creare lavoro sarebbe quella di ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni, cambiamento che, ovviamente, dovrebbe essere fatto lentamente senza alterare negativamente la produzione di beni e servizi. È probabile che i benefici aziendali inizialmente si riducano, il che spiega l’enorme opposizione del mondo aziendale a questa misura. In realtà, la sua ultima domanda, proposta per la Commissione Europea, di sensibilità neoliberale, era quella di aumentare la settimana lavorativa dalle 48 alle 65 ore.
I redditi di lavoro comunque, aumenterebbero, e questo dal punto di vista dell’efficienza economica è un esito positivo, perché una parte del problema finanziario ed economico è basato sull’eccessiva polarizzazione dei redditi, con un’enorme esuberanza dei benefici del capitale con conseguente riduzione dei benefici del lavoro.  L’enorme aumento della produttività che si è avuto durante il XX secolo nella maggior parte dei paesi dell’OCSE  ha portato maggiori benefici ai redditi di capitale che ai redditi di lavoro . Da lì, l’importanza di invertire questo fatto, sia per ragioni di equità che di efficienza economica!

domenica 10 ottobre 2010

La Guerra ed i morti in Afghanistan

La guerra in Afghanistan ci ha restituito oggi i corpi senza vita di altri quattro soldati italiani. Quanti ne dovranno morire ancora prima che la politica si assuma la responsabilità di mettere fine a questa assurda tragedia?

Quanto sangue dovrà ancora scorrere prima che il Parlamento italiano decida di discutere apertamente e onestamente della guerra in Afghanistan e di tirar fuori l’Italia da questo disastro?

Quante bare si dovranno allineare davanti ai nostri occhi per spingere la Rai ad organizzare un serio dibattito sulla guerra in Afganistan? Quando il nostro servizio pubblico radiotelevisivo aiuterà gli italiani a capire cosa è accaduto, cosa sta succedendo e come si può fare per evitare altri morti? Quando succederà che a prendere la parola verranno invitati anche i costruttori di pace e non solo i soliti noti?

I nostri giovani soldati muoiono perché il governo continua a scaricare sui militari il compito di risolvere un problema enorme che i militari non hanno nessuna possibilità di risolvere. Per quanto ancora dovremo sopportare questo scempio?

Per questo, mentre ci uniamo al dolore straziante dei familiari di Gianmarco Manca, Marco Pedone, Sebastiano Ville, Francesco Vannozzi chiediamo ancora una volta all’Italia di abbandonare la via fallimentare e inconcludente della guerra e impegnarsi a costruire un’alternativa politica a questo inutile massacro di innocenti, di verità e di legalità.

A mio parere l’exit strategy esiste: dobbiamo passare dall’impegno militare ad un impegno politico e civile a fianco delle popolazioni vittime decennali della guerra, dell’oppressione e della miseria. Dobbiamo sostenere la società civile afgana che s’impegna per il rispetto dei diritti umani, la ricostruzione e la riconciliazione (la più importante leva della democrazia in Afghanistan). Dobbiamo aumentare decisamente gli interventi di cooperazione con l’obiettivo di rispondere ai bisogni vitali della popolazione.